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Il Tempo dei Celti
Alexei Kondratiev

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L'erbario Celtico: la rosa selvatica ed il sonno d'Aurora
a cura di Mary Falco

La rosa selvatica può crescere spontaneamente nei boschi e nei dirupi ed è stata dunque distinta fin dall’antichità dalla rosa a cento petali o millefoglie (per quanto nessun botanico ne abbia mai contati tanti!), che la tradizione vuole originaria del monte Bermios, nel Caucaso orientale e gelosamente custodita nei giardini sacri e nei palazzi reali. Erodoto tuttavia già nel V secolo a.C. ne parla come di un fiore comune e racconta come fosse coltivata con successo dal mitico re Mida, in Macedonia e di qui penetrata in Grecia da una parte, in Mesopotamia, Siria e Palestina dall'altra. Le "Georgiche" di Nicandro raccontano che le famiglie greche, in primavera ed in autunno, facevano scampagnate sui monti per procurarsi le talee, che poi attecchivano felicemente. In effetti, ancora oggi nel Khourdistan questa rosa cresce assolutamente spontanea. La rosa selvatica rappresenta dunque la versione originaria del più comune fiore europeo, presente con circa 150 specie, varietà ed ibridi, in tutto il continente, di cui rappresenta un po’ il vessillo. Non a caso il termine "rosa" è forse uno dei più semplici della lingua latina: prima declinazione, femminile, riferito ad un "nome comune di cosa" universalmente noto, uno dei pochi termini usati in tutte le lingue indoeuropee, che ha fatto pensare ad un sostrato comune risalente addirittura al IV millennio a. C. E non basta: nella lingua originaria iranica "vareda", da cui l'armeno "vard", significa semplicemente fiore, vale a dire appunto "il fiore" per eccellenza. E ci sono due assonanze poetiche: ros, roris in latino è la rugiada, mentre ros nell'antico idioma celtico che il dialetto piemontese ha fedelmente conservato, significa ghiacciaio. Il monte Rosa, infatti, non s'arrossa al tramonto più di qualsiasi altra cima innevata, ma ha conservato la memoria di quest'antico modo di definire i picchi di ghiaccio. La rosa dunque nasce e cresce in associazione con l'elemento acqua in tutta la sua pienezza, dalla rugiada del mattino ai ghiacciai delle alte vette. Quasi in armonia col proprio nome è una pianta colonizzatrice, cioè vive anche nella roccia, le bastano il sole e l'acqua, sono le sue radici stesse a creare a poco a poco la terra fertile, che giova anche alle altre specie. Passando dalla rosa selvatica a quella coltivata le cure necessarie ad una buona fioritura aumentano, ma questo solo perché appunto si desidera un fiore artefatto, di colore, dimensioni, profumo diversi da quelli originari...il roseto in se', con le sue caratteristiche foglioline tondeggianti e le spine, resta una pianta rustica, che non teme i rigori dell'inverno ed affonda coraggiosamente le radici in cerca d'acqua nella calura estiva. La Rosa Canina è una delle più rustiche varietà di rosa selvatica, che deve il suo nome all’antica credenza che la sua radice servisse a guarire dalla rabbia. La farmacopea moderna non ha potuto confermare questa virtù, d’altra parte la rosa ne ha tante altre che ne giustificano abbondantemente l’uso. Forse l’idea deriva dal legame della rosa con la dea Venere, che è la dea della distensione e dell’amore. Nell’antichità il primo a parlare con tutta naturalezza della rosa, anzi, d'olio di rose per massaggi, è infatti Omero nell'Iliade, canto XXIII, verso 186: è il culmine delle tragedia, Achille ha ucciso Ettore e minaccia di gettarlo in pasto ai cani, ma non avviene perché:

"... i cani li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite
di giorno e di notte, l'ungeva con olio di rose,
ambrosio, perché Achille non lo scorticasse tirandolo..."

Nell'antichità l'olio di rose era usato sia per imbalsamare i morti (come appunto narra Omero nell'Iliade) che per lucidare il legno pregiato con cui erano costruiti molti idoli. Per ottenerlo si faceva bollire del giunco aromatico in olio d'oliva, si agitava bene e si versava sui petali di rosa opportunamente seccati. Si lasciava in infusione un giorno ed una notte e si filtrava il tutto, conservandolo in vasi prevalentemente unti di miele. In modo analogo si otteneva il vino ed il miele alle rose; Ippocrate però preferisce spremere il succo di petali freschi direttamente nel miele ed esporlo poi per una quarantina di giorni al sole. Dai petali opportunamente seccati si ricavava inoltre una polvere deodorante chiamata "diapasma", che era usata come talco dopo il bagno caldo e prima di quello freddo. Plinio ci parla di un profumo ottenuto mescolando, sempre in olio d'oliva, fiori di rosa, zafferano cinabro e giunco deodorante... in realtà non era un profumo, ma un unguento profumato, infatti, non si sapevano ancora distillare le essenze. Saranno gli arabi a compiere passi da giganti in questo campo, inventando lo sciroppo, lo zucchero aromatizzato, portando a perfezionamento il processo di distillazione dell'essenza necessario per la fabbricazione dell'acqua di rose, che è più facile da conservare ed ha un uso più esteso dei vini e degli unguenti d'un tempo. Si applicano cataplasmi di petali di rosa sulle punture d'insetti, sulle escoriazioni e per riattivare la circolazione esterna, mentre si usa l'acqua di rose come disinfettante interno ed esterno. Ma fin dalla più remota antichità in cucina si faceva grande uso d'insalate di rose, soprattutto come "intermezzo" fra una portata e l'altra quando si beveva troppo; molto quotato era anche il paté alla rosa. Plinio per primo ci descrive con vivezza di dettagli la coltivazione della rosa, consigliando di ricorrere alle talee perché seminando in modo tradizionale bisogna attendere troppo; ormai si conoscono diverse specie: Campania, Prenesto, Mileto, Trachinia Alabanda producono fiori di tonalità e profumi leggermente diversi e c'è solo l'imbarazzo della scelta. Sempre Plinio riferisce anche l'abitudine d'ergere a divisione della proprietà curiose palizzate di rose selvatiche piantate in due solchi affiancati, al centro dei quali si sistema una rete di vimini bene intrecciato per far arrampicare le giovani piante, Plinio ne raccomanda caldamente l'uso, affermando che neppure il fuoco può distruggerle!? Affermazione di per se' un po' esagerata, ma in qualche modo supportata da un uso analogo del biancospino da parte dei giardinieri d'oltralpe e dalla credenza medioevale che tali barriere naturali tenessero lontani gli spiriti cattivi...probabilmente alla resistenza naturale della palizzata spinosa era unito il "potere" di cui si riteneva dotata la pianta. A quest’usanza ed alla persistente credenza del bosco come confine naturale tra la civiltà ed il mondo esterno dobbiamo forse la nascita della suggestiva leggenda della “bella addormentata nel bosco” tenacemente custodita per cento anni da un’invalicabile barriera di rose selvatiche (secondo altre versioni da rovi, che appartengono egualmente alla famiglia delle rosacee) che impediscono a chiunque d’avvicinarsi, mantenendola sospesa tra la vita e la morte. Nell’ottocentesca favola dei fratelli Grimm la principessa si chiama Rosa Spina, ma nel 1600 il racconto del francese Perrault, curiosamente diffuso ancora nella Calabria del nostro dopoguerra, raccontava i fatti diversamente e compare il nome d’Aurora. Nella versione originaria la bella partorisce due gemelli (certo il principe non si limita al bacio tradizionale) maschio e femmina, la bimba si chiama Aurora ed è proprio il pianto disperato dei figli a risvegliarla. Ben presto tutta via il racconto comincia a circolare in versione più casta ed il nome passa alla principessa addormentata. Piotr Ilich Chaikovskij sceglie il racconto di Perrault e col balletto la favola comincia a girare il mondo. Disney la chiama senz’altro Aurora, fissando senz’altro il personaggio nell’immaginario collettivo. Ma se la rosa è da sempre legata a Venere, la dea dell’amore che sorge nuda dal mare e porta la fecondità e la gioia al mondo, Aurora non è da meno… nel mondo vedico è Ushas, la figlia del cielo e sorella della notte; veste splendidamente; viaggia ogni mattino su di un carro trainato da due cavalli rossi e da due vacche rosee ed è sempre inseguita invano dal sole (Surya), che non riesce mai a raggiungerla, inutile dire che nella favola di Perrault il maschietto si chiamavano appunto Sole. Ushas è l'amante, la fidanzata o la figlia di Surya (il sole) di cui essa prepara la via, ma in realtà è anche fidanzata a Kandra (la Luna, che è di sesso maschile nella religione vedica) e che è il suo vero amore segreto. Anche per gli antichi Celti, come per i tedeschi e gli ebrei di oggi, il sole è femminile e la luna maschile e nella più antica versione del Tristano ed Isotta i due amanti erano due evidenti trasposizioni del sole e della luna... nonché del loro rapporto fugace e clandestino. A Ushas sono dedicati venti inni meravigliosi, pieni di impeto lirico, privi di quegli accenni sacrificali che appesantiscono spesso la poesia vedica. Nata dal mare come Venere e prima di lei Afrodite, portatrice della prima luce del giorno, Ushas risveglia gli uomini, incitandoli alla bontà, alla giustizia e al proficuo lavoro; gli uomini, a loro volta, la implorano perché conceda loro un buon cibo, prole, bestiame, ricchezza e lunga vita… ma non si tratta di ricchezze facilmente acquisite. Nascendo la Dea porta al mondo la passione ed il primo effetto è lo scatenarsi della rivalità e della guerra, che paradossalmente poi lei sola può placare. Una divinità doppia dunque, come poche! Che il mondo cristiano cerchi d’addormentare la vecchia dea, che la immagini eternamente nascosta nei boschi di rose, laddove la natura si fa più impenetrabile, è dunque un concetto nient’altro che banale, ben custodito dall’ingenua favola per bambini. Possiamo dunque vedere nella splendida favola della Bella Addormentata nel bosco il simbolo d’una divinità femminile che dorme, ma non è morta ed attende solo il bacio del principe per restituire al mondo tutta la sua vitalità. La rosa selvatica condivide con la più famosa rosa coltivata tutte le proprietà curative… ma è sempre stata considerata, a torto, la sorella povera. Fin dall'antichità la si giudica un fiore dalla doppia valenza; da un lato, infatti, si caratterizza per la bellezza e soavità del profumo dei propri boccioli, dall'altro per il tronco ed i rami pieni di spine, piccole e appuntite, che rappresentano un ostacolo per chiunque si avvicini e desideri cogliere una rosa. Per questi motivi il significato attribuito al fiore è duplice: delicatezza e piacere ma la tempo stesso anche sofferenza e dolore fisico. Oggi al contrario si considera la rosa selvatica, col suo fiore di cinque petali, una garanzia di genuinità rispetto a quella coltivata e dunque un eccellente tonico ed astringente, soprattutto nella cura delle emorragie, tisi e tumori della pelle. Da non dimenticare sono poi le proprietà calmanti e rilassanti associate agli infusi ed estratti ricavati con i petali del fiore, ma anche dalle sue bacche, che nelle varietà selvatiche sono abbondanti e facili da conservare.

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