Triora è un piccolo
paese dell’entroterra
ligure, in provincia di
Imperia. La sua storia
ha origini molto
antiche, risalenti
addirittura al tempo dei
Romani. Tuttavia, per
quello che ci riguarda,
Triora sale agli onori
della cronaca nel XVI
secolo, quando ebbe
luogo una terribile e
violentissima “caccia
alle streghe”, fatto che
rese famosa Triora come
“il paese delle
streghe”.
Ma veniamo ai fatti. Tra
il 1585 ed il 1587
Triora fu vittima di una
gravissima carestia, che
portò la popolazione
sull’orlo della morte
collettiva. In un clima
come questo ed in un
paese isolato come era
quello di Triora, ancora
“superstizioso” ed
“arretrato”, è ovvio che
gli animi si scaldassero
nella maniera peggiore.
Dunque, nel paese, si
iniziò a sospettare che
la causa di tale
carestia non fosse
completamente naturale,
ma che ci fosse lo
zampino di qualcun
altro: delle streghe. Le
colpevoli furono subito
individuate in alcune
donne abitanti il
quartiere di Ca Botina,
la zona fuori le mura
più povera di tutto il
paese. Il Parlamento
generale del paese, un
governo popolare formato
dai maiores terrae e
retto da sei consoli in
rappresentanza delle
principali famiglie
magnatizie trioresi,
messo al corrente di
questi fatti, affidò al
podestà forestiero
Stefano Carrega
l’incarico di
organizzare il processo
contro le supposte
streghe. Il podestà
decise di rivolgersi al
vescovato della vicina
Albenga, da cui Triora
dipendeva, che inviò nel
paese il proprio
vicario, tale Girolamo
Del Pozzo. Il vicario
era coadiuvato, nel suo
compito, da un vicario
inquisitore proveniente
da Genova. I due, giunti
a Triora ai primi di
ottobre del 1587,
durante una messa
solenne, invitarono
tutti coloro che fossero
a conoscenza di fatti
utili al processo a
parlare. La predica, che
molto doveva allo stile
di Savonarola, fece
effetto sul popolo
triorese: infatti, in
breve furono denunciate
e processate ben venti
sospette streghe.
Vennero, poi, preparati
anche i luoghi di
“interrogatorio”, anche
se sarebbe meglio
parlare di torture, ai
quali le streghe furono
sottoposti, luoghi
ancora oggi visibili:
casa “del Meggia”, anche
chiamata “Ca’ de
baggiure” (casa delle
streghe) e “Ca’ di
spiriti”. Dal processo
si ebbero ben tredici
donne colpevoli, più
quattro ragazze ed
addirittura un
fanciullo: queste
persone fecero i nomi di
altri “complici”,
appartenenti, alcuni,
anche a famiglie
aristocratiche. Questa
eccessiva esplosione di
attività magica in un
paese piccolo come
Triora risultò, tanto
alla popolazione quanto
ai membri del governo,
fatto strano. Si ebbero,
poi, anche le prime due
vittime: la sessantenne
Isotta Stella, uccisa
dall’eccessiva “foga” di
giustizia da parte degli
assistenti dei due
vicari, ed un’altra
donna, di cui si ignora
il nome, morta nel
tentativo di fuggire da
una finestre di casa
“del Meggia”. Visti
questi fatti, il
Consiglio degli Anziani,
rappresentante delle
famiglie più altolocate
del borgo, decise di
chiedere al Parlamento
generale un intervento
da parte del governo di
Genova, adducendo il
fatto che il processo
aveva perso di
imparzialità ed i suoi
esecutori stavano
diventando sadici
aguzzini e torturatori,
più che semplici vicari
della Chiesa di Roma.
Tuttavia, il Parlamento
generale, d’accordo con
il podestà, rifiutò di
rivolgersi a Genova.
Furono dunque gli
Anziani in prima
persona, con una lunga
lettera, a chiedere
l’intervento esterno.
Nella missiva, il
Consiglio ragguagliava
chi di dovere dei metodi
eccessivamente duri
utilizzati da Del Pozzo
e dal suo assistente
dell’Inquisizione, del
fatto che molte donne
fossero tenute
prigioniere nonostante
gli indizi a loro carico
fossero solo indiziali o
non avessero confessato
alcun crimine; la
lettera continuava poi
riferendo delle torture
alle quali le sospette
streghe erano sottoposte
(“con
darli corda per lungo
spatio e puoi fuoco alli
piedi per longo spatio
anchora; appresso le
fanno vegliare per più
d’hore quarantacinque
incominciando dalla
sera, oltre averle fatte
con rupitorii pelare in
tutte le parte del
corpo; ne è questo
populo redatto in
desperatione maxime che
s’intende che a quest’hora
vi siino più di dugento
persone nominate; e nel
modo che sino a qui si è
fatto,prima che si
finisci saranno nominate
la più parte del populo
et forse tutta”)
e riportando, ad
esempio, anche il caso
di Isotta Stella (“…dopo
essere stata tormentata
più volte alla corda,
nonostante che fusse
vecchia più di anni
sessanta, un giorno fra
li altri quasi
disperata, chiamato a sé
il vicario di monsignor
vescovo confessò aver
complici di quanto era
sospetta, perché indi a
presso nodrita di pane e
acqua, straciata di
tormenti, se ne è morta
in confessa et senza
ordini di chiesa”).
Alla lettera, il Doge ed
i governatori genovesi
rispondono sollecitando
il vescovo di Albenga,
con una lettera datata
16 gennaio 1588, a fare
luce sui fatti
denunciati dagli Anziani
di Triora. Il 25
gennaio, il vescovo,
Luca Fieschi, invia a
Genova una lettera a lui
recapitata alcuni giorni
prima da Del Pozzo nella
quale il vicario
giustifica il proprio
operato, si discolpa
dalle accuse di tortura
eccessiva ed ingiusta
mosse dal Consiglio e
spiega come la morte
della donna caduta dalla
finestra sia da imputare
non ad un tentativo di
fuga dalla tortura, ma
al diavolo, che avrebbe
tentato la donna (“…una
notte, poco doppo che fu
presa, tentata dal
diavolo si procurò la
fuga con guastare una
sua veste che aveva
indosso e accomodarla a
guida di benda, ma non
essendole riuscito il
disegno, cascò subito
che fu fuori dalla
finestra et essendosi
stropiata con pericolo
di vitta, confessò
subito tutto e chiedendo
misericordia a Dio sen’è
poi morta ultimamente
confessa et per quanto
si poteva scorgere
contrita”).
Il vicario, poi,
concludeva la sua
lettera promettendo di
non avviare ulteriori
processi contro streghe
e di limitarsi a portare
a conclusione quelli
avviati fino a quel
momento.
Il 10 gennaio i due
vicari erano partiti da
Triora, senza però
liberare dalla prigionia
tutte le streghe
arrestate. In febbraio,
vista questa situazione,
il Parlamento di Triora
pregò i governanti
genovesi di
“interessarsi” più da
vicino del processo che
stava avendo luogo nel
paese, processo che
stava causando fin
troppi problemi a tutta
la popolazione. Genova,
allora, decise di
inviare a Triora un
Inquisitore Capo,
affinché chiudesse
definitivamente la
questione, liberasse le
innocenti e condannasse
le colpevoli. E questo è
ciò che egli fece:
ascoltò le donne
incarcerate, le quali
negarono tutte tranne
una quanto avevano
confessato due vicari.
L’Inquisitore Capo
decise quindi di
trattenerle tutte. Tutte
tranne una: una
fanciulla di 13 anni che
venne liberata e che il
3 maggio abiurò nella
chiesa della Collegiata
durante la celebrazione
di una messa solenne. La
situazione, però, non
cambia. Dunque, Genova,
nel giugno 1588, decide
di inviare a Triora un
Commissario Speciale,
tale Giulio Scribani, il
quale, anziché sbloccare
e chiudere il processo,
dà nuova linfa alle
accuse e fa incarcerare
nuove potenziali
streghe: Andagna,
Bianchina, Battistina e
Antonina
Vivaldi-Scarella, che,
si erano auto-dichiarate
colpevoli di enormi
delitti, tra i quali i
più gravi erano omicidi
di bambini innocenti di
Andagna. Qualche giorno
dopo l’arrivo di
Scribani, il nuovo
podestà del paese,
Giovanni Battista Lerice,
su ordine del Padre
inquisitore di Genova,
mandò a Genova per la
revisione del processo
le streghe ancora
detenute a Triora. Il
locale “bargello”, il
capo della polizia,
Francesco Totti, si
occupò del trasferimento
delle tredici donne
trioresi, le quali gli
furono consegnate il 27
giugno.
Il lavoro del
Commissario Speciale,
abbiamo detto, portò a
formulare nuove accuse
contro molte donne. Le
quali, va detto, non
furono soltanto di
Triora: Scrivani mosse
accuse di “reato contro
Dio”, “commercio con il
demonio”, “omicidio di
donne e bambini” contro
una ventina di donne di
Castelfranco, contro due
Montalto Ligure,
Badalucco, Porto
Maurizio e Sanremo. Il
22 luglio Scribani mandò
a Genova i verbali degli
interrogatori delle
streghe insieme con la
richiesta di condanna a
morte per quattro donne
di Andagna. Le accuse
mosse da Scribani non
rientravano nelle sue
competenze. Dunque, il
governo della Repubblica
delegò la decisione sul
da farsi a Serafino
Petrozzi, auditore e
consultore, il quale
respinse tutte le
conclusioni e le
proposte di pena di
Scribani, sostenendo che
non si potevano
“adottare provvedimenti
punitivi mancando delle
prove certe e
inconfutabili”. La
missione dello Scribani
viene allora prorogata
di un mese, ma Genova
gli raccomanda di
occuparsi solamente di
compiti politici ed
amministrativi e di
lasciare
all’Inquisizione la
gestione del processo.
Per quanto riguarda le
accuse alle potenziali
streghe di Andagna e di
Bajardo, Petrozzi gli
chiede di fornire prove
più forti. Lo Scribani
risponderà qualche
giorno, l’8 agosto,
affermando
l’impossibilità di
portare maggiori prove,
in quanto i delitti dei
quqli le donne erano
accusate sarebbero stati
consumati molto tempo
prima o fuori dallo
Stato (come nel
Finalese, che
comprendeva Finale
Ligure, Finalborgo,
Finalmarina, Finalpia, o
a Oneglia, che faceva
parte del Principato dei
Savoia). Nonostante
l’aperta ostilità di
Genova, Scribani
processò nuovamente le
donne di Bajardo,
pronunciando, per
quattro loro, il 30
agosto, sentenza di
morte. Una quinta
ragazza, invece,
inizialmente Scribani
propose che fosse messa
in convento, ma poi si
convinse di condannarla
a morte come le altre.
Genova, ovviamente, mal
digerì le ingerenze di
Scribani. Dunque, per
riprendere il controllo
di una situazione che
stava sfuggendo di mano,
si decise di affiancare
al giudice Petrozzi
altri due commissari, il
podestà Giuseppe Torre e
Pietro Alaria
Caracciolo, affinché si
pronunciassero
nuovamente sulle
decisioni prese da
Scribani.
Incredibilmente, i tre,
contrariamente a quanto
stabilito in un primo
tempo dal solo Petrozzi,
diedero parere
favorevole alla condanna
a morte delle quattro
streghe di Andagna e di
altre due streghe di
Badalucco e
Castelfranco, Peirina
Bianchi (“malefica
confessa et convinta”) e
Gentile Moro. Il Senato
genovese, viste le
decisioni dei tre
giudici, approvò la
condanna a morte delle
cinque streghe accusate
di delitti ed ordinò,
allo stesso tempo, di
scrivere al vescovo di
Albenga, affinché, prima
dell’esecuzione
(condanna per
impiccagione e
cremazione dei corpi),
le cinque condannate
fossero riconciliate con
la Chiesa. Alla
ratificazione delle
decisioni fatta dal
Senato, però, si oppose,
sempre da Genova, il
Padre Inquisitore, che
sostenne come l’eseguire
processi e sancire
condanne a morte per
stregoneria fosse
pertinenza, nel
territorio della
Repubblica genovese,
della Santa Inquisizione
di Roma, da lui
rappresentata. Il
governo genovese
convenne con quanto
affermato dal Padre
Inquisitore. Le cinque
donne, così, furono
trasportate a Genova,
dove si andarono ad
unire alle altre loro
tredici “colleghe”, già
precedentemente
condannate. Anche in
questo caso, però, il
procedimento rallenta i
suoi tempi. La
Congregazione del
Sant’Uffizio, che si
doveva occupare del
processo, tenne
tergiversò senza
giungere ad alcuna
decisione. Allora il
doge e i governatori
genovesi scrissero a
Roma (febbraio aprile
1589) affinché il
Sant’Uffizio prendesse
quanto prima una
decisione. Il 28 aprile
1589 il cardinale di
Santa Severina, a nome
della Congregazione,
assicurò il governo di
Genova che erano stati
impartiti sollecitazioni
ordini tassativi per una
rapida conclusione della
causa da parte della
sezione di Genova. Il 27
maggio il doge e i
governatori di Genova,
tramite il cardinale
genovese Sauli,
sollecitarono nuovamente
la Congregazione del
Sant’Uffizio affinché
concludesse la revisione
del processo. Intanto,
delle tredici donne
inviate da Triora nel
giugno 1588, tre erano
morte e le altre erano
state rimandate a casa,
mentre, delle cinque
donne condannate a
morte, due erano
decedute. Il 28 agosto
1589 il cardinale di
Santa Severina annunciò
al governo genovese che
il procedimento di
revisione del processo
era finalmente
terminato. Il tribunale
della Santa Inquisizione
aveva presumibilmente
annullato alcune
condanne a morte decise
dall’autorità
ecclesiastica genovese,
stabilendo che le ultime
tre streghe rimaste
ancora nelle carceri
venissero liberate.
Rimane da vedere cosa
accadde a Scribani, che
tanta parte ha avuto nel
complicare questi
avvenimenti. Ad agosto,
la Santa Inquisizione
decise di aprire un
procedimento contro di
lui per aver invaso il
campo riservato
all’autorità
ecclesiastica.
Supportato dalla
Repubblica genovese,
però, che ne
raccomandarono
all’Inquisizione
l’assoluzione, i
cardinali decisero di
assolverlo con formula
piena, a patto che ne
facesse pubblica
richiesta al vicario
arcivescovile di Genova,
cosa che avvenne pochi
giorni dopo.
Il “Processo di Triora”
è stato uno dei grandi
casi italiani di
processi a streghe.
Riguardo la sua
legittimità, molte sono
le voci discordanti.
Come molte, del resto,
furono le urla delle
donne torturate
ingiustamente
dall’Inquisizione. |