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Basilica di San Nicola (Bari)

San Nicola e la stirpe degli Artù

a cura di Andrea Romanazzi

               

Spesso, la ricerca e la conoscenza partono da molto lontano, da luoghi che spesso sembrano culturalmente diversi, ma che in realtà hanno più punti in comune di quello che si possa pensare. E' proprio seguendo questo invisibile filo d'Arianna che lega tra loro civiltà che sembrano molto distanti, che viaggeremo, come novelli Ulisse, verso le sponde fiabesche dei miti celtici per poter poi interrogarci su un bassorilievo molto vicino a noi, il bassorilievo della "Porta Dei Leoni" della Basilica di San Nicola. Ancora oggi, per i turisti che giungono a Bari, la Basilica di San Nicola è una tappa obbligata, come lo fu in passato per tantissimi pellegrini cristiani che attraversavano la Puglia e percorrevano le sue vie, la Francigena e la "via sacra longobardorum" per portarsi da Oriente verso Roma e Compostela o viceversa, per raggiungere Costantinopoli e la Terra Santa. Bari così diventa nodo cruciale per i collegamenti tra Oriente ed Occidente, tra la chiesa ortodossa e quella cristiana. Ma un'altra cultura, un'altra religione si stava affacciando in quegli anni nella "polis" barese. Infatti nella prima metà del IX sec. si iniziano ad avere notizie di insediamenti mussulmani in Puglia. Verso l'853, Bari era governata dal mussulmano Mufarrag ibn Sallam che si preoccupò di costruire nella città una moschea, ancora oggi non ancora trovata. La costruzione di questa opera portò nella città una serie di maestranze arabe i cui influssi si possono notare ancora oggi nella Basilica Nicolaiana. La presenza araba durò solo pochi anni, ma lasciò nel tessuto della città forti influenze non solo a livello architettonico, ma anche politico e culturale. Tracce del mondo arabo le troviamo dunque nella stessa basilica, sul fianco destro della famosa porta dei leoni, di cui riparleremo in seguito, notiamo come lastra di reimpiego, un sepolcro anonimo di classica fattura araba o ancora l'intreccio rappresentante il Monogramma di Allah all'interno del mosaico presbiteriale. Bari diventa città "trait d' Union" tra Oriente e Occidente, tra la "regula latina", quella orientale o "attica" e il mondo arabo "fulcro" di quel "movimento" di pellegrini e guerrieri che oggi definiremmo crociata, termine anacronistico già che si iniziò ad usare solo verso il 200-300, e che in realtà veniva comunemente definito con "iter", "auxilium", "succursum" o infine "passagium". Per questa Bari multietnica, dunque, non bastava una classico Santo Patrono, ma una figura carismatica che virtualmente unisse i due mondi, Occidente ed Oriente, appunto San Nicola. Fu così che nel 1087 un gruppo di 62 marinai guidati da alcuni sacerdoti si recarono a Myra ove, da un pozzo pieno di uno stranissimo liquido, quella che poi sarà definita la Manna, prelevarono parte delle ossa di San Nicola per portarle, come venerate reliquie, nella città. Le ossa furono così poste temporaneamente nella chiesetta di Santo Stefano e successivamente nella Basilica costruita proprio sull'area del Catapano, sede del governatore bizantino del Thema di Longobardia. Numerose sono le leggende legate al Santo, e tutte legate alla facoltà di Nicola di Myra di produrre abbondanza. Una di queste racconterebbe di tre giovinette poverissime che erano destinate a prostituirsi, il Santo le salvò dal loro destino infausto portando loro, dalla finestra, tre sacchi di monete d'oro. Si narra, poi, che il vescovo di Myra regalasse cibo e vestiti alle famiglie più povere portando tali doni attraverso i camini. Nasce così una nuova figura del santo, questi diventa colui che dispensa doni, compito per il quale divenne famoso in tutta Europa e che eseguiva tradizionalmente il 6 Dicembre e che poi fu spostato nella notte di Natale. E' proprio da una corruzione del nome di San Nicola che nascerà la leggenda di Babbo Natale o Santa Claus. Questa caratteristica del santo, forse, potrebbe essere legata alla tradizionale manna che si produce dalle sue ossa e che nell'immaginario collettivo lega la figura di Nicola ai "doni". Si può così notare come la Basilica nicolaiana diventa veramente centro di commistione di molte religioni apparentemente slegate tra loro, unione tra il mondo trascendente occidentale, il mondo del Demiurgo, e quello immanente orientale. Attorno a tutte queste strane simbologie e leggende ecco nascere diverse ipotesi ortodosse, una di queste, sostenuta da alcuni studiosi, è che la traslazione delle ossa del santo non fosse altro che una copertura, voluta dal Papa Gregorio VII per il recupero di qualcosa di molto prezioso, una reliquia che avrebbe potuto aiutare gli eserciti cristiani contro gli "infedeli" e che si trovava nella mitica Sarraz, luogo impossibile da situare storicamente o geograficamente. Di esso si diceva che non fosse in Egitto, ma "vi si vede da lontano il Grande Nilo", situato in Medio Oriente e luogo dal quale "ebbero origine i Saraceni". Questa "poderosa" reliquia altro non era che il Graal, la "scutella" che poteva infondere novella forza agli eserciti crociati che partivano dal porto della città per combattere gli infedeli, e non a caso, appunto, la prima crociata fu organizzata proprio a Bari da papa Urbano II. Ma cosa è il Graal? Difficile definire in poche parole un "qualcosa" che ha fatto versare fiumi d'inchiostro dal medioevo ad oggi. Per alcuni sarebbe la coppa dell'ultima cena e dove fu raccolto il sangue di Cristo, secondo altre ipotesi il termine Graal proverrebbe da Sang Real, cioè non meglio definita dinastia derivante proprio da Gesù, per altri esso ricorderebbe il calderone celtico di Dagda dal quale, poi, furono forgiate 7 coppe più piccole. In realtà esso potrebbe essere sia un oggetto materiale che immateriale, simbolo di una antica religione ctonia che appunto usava la "coppa" come metafora del "ventre materno" della dea Terra, e successivamente metafora della Vergine Maria, come si può notare anche nella Litania di Loreto ove si dice "vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis". Tale simbologia è anche legata alla lancia di Lug, che potremmo paragonare a quella di Longino, di cui, proprio a San Nicola, vi è una copia. Infatti la coppa e la spada si unirebbero nel ricordo di quel culto unico, il culto della madre Terra: l'elemento femminile, e del Sole: l'elemento maschile, appunto rappresentato in questa simbologia dalla spada, e macroscopicamente, tra le civiltà megalitiche, con l'erezione del menhir, la "roccia" conficcata nel ventre materno della terra bruna. La cerca del Graal sarebbe così sia ricerca dell'oggetto materiale, ma anche ri-cerca o ri-scoperta di questo antico culto da esso simboleggiato. Come segno tangibile di questa ricerca ecco sul archivolto della famosa "porta dei Leoni" della Basilica, rappresentato scene del ciclo arturiano. In realtà il problema che sorge è che questo Rex Arturius rappresentato è di gran lunga antecedente alla diffusione in Italia della "Materia di Bretagna", e non è l'unico caso. Infatti un altro Re Artù è rappresentato nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto mentre combatte contro uno strano felino che ricorda "gatto Lupesco", anonimo poeta siciliano che "canta" il mitico re, e in quella di Modena. Inoltre ben prima dei miti Arturiani, il tema della "spada nella roccia" che simbologicamente richiama fortemente quello cui abbiamo accennato in precedenza, lo troviamo a Chiusdino, nella Abbazia dedicata a San Galgano. La simbologia della "spada nella roccia" si lega al mito del Graal. Per alcuni lo stesso Graal, non sarebbe una coppa, bensì una pietra, quella che Wolfram von Eschernbach definisce nel "parzival come "lapis exillis", ancora per molti termine derivato da Lapis ex coelis e dunque pietra caduta dal cielo, definizione che legherebbe ancor di più quei due culti che apparentemente sembrerebbero separati: Cielo e Terra. Una conferma di quello che stiamo dicendo la troviamo in Frigia, ove, per esempio, Cibele era adorata sotto la forma di Pietra Nera che si riteneva caduta dal cielo. Ed ecco, dunque, che per rispondere alle questi anacronismi dobbiamo tornare alla "materia di Bretagna" e alla figura di re Artù. Molto si è discusso sull'origine etimologica del nome Artù, esso potrebbe derivare dai termini celtici ART, roccia, o ARTH GWYR, uomo orso. Lo stesso nome, dunque sembrerebbe legare il mitico personaggio alla "pietra" e al suo culto. Artù fu citato come personaggio storico solo nel X secolo d.C., ma le tradizioni lo portano indietro fino al V-VI secolo. Per alcuni studiosi, il sovrano sarebbe un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi e il nome potrebbe derivare dal latino Artorius un "Comes Britanniarum", ovvero un rappresentante locale dell'Impero Romano e quindi più che un nome reale rappresenterebbe un titolo. Nel 600 nel poema epico Gododdin, in un interessantissimo passo si narra di un guerriero che "fornì cibo ai corvi presenti sui bastioni senza essere un Artù". Che significa questa frase? Esisteva più di un Artù? Se così fosse ciò giustificherebbe alcune contraddizioni temporali che caratterizzano il re celtico. Si potrebbe così pensare che il termine Artù, nato da un primo mitico re, fosse un titolo che veniva preso da tutti i suoi successori, un po' come il titolo di Cesare per i romani. Questo giustificherebbe le varie discrepanze di tempo che vi sono su tale figura, anzi, poichè re Artù venne legato alla mitica impresa di recupero del Graal, una intrigante idea potrebbe essere che tutti quelli che erano designati a tale missione prendessero tale titolo. Così nasce una affascinante idea: nel 1087 un drappello di 62 cavalieri, guidati da un Artù, si mettono in viaggio da Bari verso la mitica Sarraz per recuperare le ossa del Santo Custode del Graal, e la cui impresa memorabile fu per sempre immortalata in un archivolto della stessa basilica costruita per ospitare le ossa del santo, per ricordare, se mai ce ne fosse il bisogno, che non è il nome di un uomo che si conserva nella memoria storica, ma le sue imprese.

          

                   

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