Nelle fitte foreste di
alberi impregnati di
profumo e di spezie che
crescevano nei paesi
dell'Arabia e delle
Persia, viveva l'uccello
più bello e più raro del
mondo, la fenice. Forse
ve n'era più di una, o
forse era sempre la
stessa, vista a lunghi
intervalli, immutata e
senza età. La si stimava
apportatrice di buona
fortuna e di felicità;
messaggera di pace, di
raccolti abbondanti in
campi assolati, di
mandrie vigorose, di
agnelli e vitelli
robusti, di fattorie
operose e di lavoratori
sani, di denaro e di
prosperità, di buona
volontà e di agiatezza.
Come l'unicorno, anche
la fenice diventò un
emblema di virtù e di
potenza. La fenice era
sacra al sole. Viveva e
prosperava ai raggi
imperituri del sole
tropicale, e vestiva i
colori della luce. Le
sue piume avevano tutta
la gamma di colori nei
quali si scompone la
luce, attraverso l'acqua
o a palpebre socchiuse.
Il collare e la cresta
erano d'oro, la coda
d'azzurro e di rosa, le
penne del corpo e le ali
di porpora, striate di
verde e di rosso
iridescente. Al raro e
fortunato individuo cui
capitava di intravederla
durante un viaggio
nell'infuocata Arabia,
pareva che un bagliore
di luce più brillante si
muovesse entro la stessa
luce del sole, fino a
che nel bagliore,
l'occhio scorgeva la
splendida forma della
fenice. Nessuno al vide
prendere cibo; la gente
pensava che si nutrisse
della luce del sole, o
del profumo degli alberi
che il calore del sole
diffondeva nei boschi e
si dissetasse con le
gocce della rugiada
mattutina. La più strana
delle meraviglie che si
raccontano sulla fenice,
era la sua immortalità.
Quando, secondo il sole,
erano trascorsi cinquecentoquarant'anni,
la fenice si ritirava
nella più segreta delle
sue plaghe, sceglieva un
punto dove i raggi del
sole cadevano a
perpendicolo e qui
costruiva il suo nido:
spezzava ramoscelli di
incenso, di cassia e di
sandalo e ne formava con
essi la struttura;
rivestiva poi l'interno
del nido con foglie e
frutta di alberi
profumati e di altre
piante odorose,
preparandosi così un
letto fortemente
aromatico. Quando tutto
era pronto e a
mezzogiorno il sole si
avvicinava al massimo
del suo fulgore, la
fenice entrava nel nido.
Fissava i suoi occhi
luminosi sul sole
dardeggiante e restava
immobile, rapita. A mano
a mano che il fuoco
ardente del cielo si
avvicinava alla linea
dello zenit, il calore
della terra si faceva
sempre più intenso. E la
fenice continuava a
fissare il sole, tutta
assorta nell'intensità
di quella luce e di
quella forza
terrificante. Dai
rametti del nido,
divenuti sempre più
caldi, si sprigionava
allora un fumo odoroso.
Infine si levava una
lingua di fuoco e poi
un'altra. E il nido si
infiammava e le fiamme
avvolgevano la fenice.
In breve tempo il fuoco
si spegneva e non
restavano che le ceneri.
Ma in quelle ceneri era
un verme o serpentello:
sulle ceneri ardenti
esso depositava un uovo,
poi era consumato
dall'ultimo guizzo della
fiamma. Il sole
riscaldava l'uovo che,
in pochi istanti, veniva
covato. Il guscio
rompendosi, lasciava
apparire un uccello
colorato, la nuova
fenice, una fenice in
miniatura; il corpo
rosso e iridescente, il
collare e la piccola
cresta d'oro, la coda
d'azzurro e rosa.
Nasceva dal suo stesso
uovo, perché in realtà
la fenice non moriva
mai.
 |