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L'Occhio della Fenice
Umberto Capotummino

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la fenice
a cura di Laura Quattrini

Nelle fitte foreste di alberi impregnati di profumo e di spezie che crescevano nei paesi dell'Arabia e delle Persia, viveva l'uccello più bello e più raro del mondo, la fenice. Forse ve n'era più di una, o forse era sempre la stessa, vista a lunghi intervalli, immutata e senza età. La si stimava apportatrice di buona fortuna e di felicità; messaggera di pace, di raccolti abbondanti in campi assolati, di mandrie vigorose, di agnelli e vitelli robusti, di fattorie operose e di lavoratori sani, di denaro e di prosperità, di buona volontà e di agiatezza. Come l'unicorno, anche la fenice diventò un emblema di virtù e di potenza. La fenice era sacra al sole. Viveva e prosperava ai raggi imperituri del sole tropicale, e vestiva i colori della luce. Le sue piume avevano tutta la gamma di colori nei quali si scompone la luce, attraverso l'acqua o a palpebre socchiuse. Il collare e la cresta erano d'oro, la coda d'azzurro e di rosa, le penne del corpo e le ali di porpora, striate di verde e di rosso iridescente. Al raro e fortunato individuo cui capitava di intravederla durante un viaggio nell'infuocata Arabia, pareva che un bagliore di luce più brillante si muovesse entro la stessa luce del sole, fino a che nel bagliore, l'occhio scorgeva la splendida forma della fenice. Nessuno al vide prendere cibo; la gente pensava che si nutrisse della luce del sole, o del profumo degli alberi che il calore del sole diffondeva nei boschi e si dissetasse con le gocce della rugiada mattutina. La più strana delle meraviglie che si raccontano sulla fenice, era la sua immortalità. Quando, secondo il sole, erano trascorsi cinquecentoquarant'anni, la fenice si ritirava nella più segreta delle sue plaghe, sceglieva un punto dove i raggi del sole cadevano a perpendicolo e qui costruiva il suo nido: spezzava ramoscelli di incenso, di cassia e di sandalo e ne formava con essi la struttura; rivestiva poi l'interno del nido con foglie e frutta di alberi profumati e di altre piante odorose, preparandosi così un letto fortemente aromatico. Quando tutto era pronto e a mezzogiorno il sole si avvicinava al massimo del suo fulgore, la fenice entrava nel nido. Fissava i suoi occhi luminosi sul sole dardeggiante e restava immobile, rapita. A mano a mano che il fuoco ardente del cielo si avvicinava alla linea dello zenit, il calore della terra si faceva sempre più intenso. E la fenice continuava a fissare il sole, tutta assorta nell'intensità di quella luce e di quella forza terrificante. Dai rametti del nido, divenuti sempre più caldi, si sprigionava allora un fumo odoroso. Infine si levava una lingua di fuoco e poi un'altra. E il nido si infiammava e le fiamme avvolgevano la fenice. In breve tempo il fuoco si spegneva e non restavano che le ceneri. Ma in quelle ceneri era un verme o serpentello: sulle ceneri ardenti esso depositava un uovo, poi era consumato dall'ultimo guizzo della fiamma. Il sole riscaldava l'uovo che, in pochi istanti, veniva covato. Il guscio rompendosi, lasciava apparire un uccello colorato, la nuova fenice, una fenice in miniatura; il corpo rosso e iridescente, il collare e la piccola cresta d'oro, la coda d'azzurro e rosa. Nasceva dal suo stesso uovo, perché in realtà la fenice non moriva mai.