Per
un certo gusto
neopositivista, si è
soliti pensare che più
la civiltà degli umani
vada avanti, più, di
conseguenza, la
tecnologia migliori e
progredisca. In questa
ottica, il passato viene
sempre visto come
un’epoca di arretratezza
ed “ignoranza”. Alla
fine dell’Ottocento, in
alcuni paesi Europei,
ammalarsi di polmonite
voleva dire la morte
certa; oggi,
fortunatamente, non è
più così. Quarant’anni
fa, i primi computer a
valvole occupavano
intere stanze ed avevano
una capacità di calcolo
assai limitata; oggi, un
computer portatile non
pesa più di un paio di
chili, sta comodamente
in una borsa e ci
permette, tramite
Internet, di metterci in
comunicazione con il
mondo intero. Gli esempi
potrebbero continuare
all’infinito, ma
confermerebbero sempre
la stessa cosa: il
passato è buio ed
antiquato, il presente
ed il futuro luminosi e
caratterizzati da una
più alta qualità
tecnologica. Ma forse le
cose non stanno così:
forse, nel passato del
nostro pianeta, c’è
stata una civiltà in
possesso di tecnologie
nettamente superiori a
quelle in nostro
possesso. Incredibile?
Forse no, a giudicare da
quelle che potrebbero
essere le prove…
Il deserto di Ocucaje,
in Perù, è un territorio
arido e sabbioso posto
ai piedi della catena
delle Ande, vicino
all’altopiano di Nazca,
celebre per i suoi
disegni, e non lontano
da Paracas, località
nota per il suo
“candelabro di sabbia”.
Il deserto ha una grande
rilevanza archeologica,
in quanto, all’inizio
del 1900, furono
scoperte vastissime
necropoli delle culture
Nasca e Paracas (datate
fra il 400 a.C. e il 400
d.C.), contenenti
centinaia di mummie e
migliaia di oggetti in
oro, elementi del
corredo funerario dei
sepolti. La valle,
infatti, insieme a
quelle di Pisco e Nazca,
faceva parte dell’impero
Chincha, impero
precedente a quello
Inca.
In questa zona, nel
1961, furono compiuti,
mediante l’utilizzo di
numerose ruspe, dei
lavori di scavo per la
costruzione di una
cisterna per la raccolta
di acqua per
l’irrigazione. Qualche
tempo dopo, sempre nella
stessa zona, il fiume
Ica, nelle vicinanze del
quale si trova un
villaggio con lo stesso
nome, ingrossò e finì
per inondare le zone
circostanti; erodendo i
versanti delle colline
delle Haciendes, di
Ocucaje e di Callago,
l’esondazione portò alla
luce una grande quantità
di pietre di dimensioni
assai varie, da piccoli
ciottoli a massi di
oltre due quintali, che
mostravano incisioni
molto interessanti.
Nel mese di maggio di
cinque anni dopo, un
contadino della zona,
Felix Llosa Romero, donò
una di queste pietre ad
un suo amico d’infanzia,
il dottor Javier Cabrera
Darquea, medico chirurgo
all’ospedale di Ica,
docente di biologia e di
antropologia
all’Università di Ica,
archeologo per hobby,
uomo di grande cultura e
di notevole apertura
mentale, perché questi
la usasse come
fermacarte. Il dottor
Cabrera, ovviamente, non
riteneva “una pietra”,
seppur dal
caratteristico colore
scuro e dalla forma
incredibilmente
tondeggiante (troppo
tondeggiante persino per
un ciottolo di fiume),
un regalo da considerare
troppo prezioso.
Tuttavia, alcune
caratteristiche di
questa lo fecero
ricredere
sull’importanza del suo
regalo. Innanzitutto,
Cabrera rimase
impressionato dal peso
del c iottolo
di fiume, eccessivo e
spropositato rispetto
alle piccole dimensioni
della pietra; inoltre,
quando osservò la pietra
con maggior attenzione,
notò su di essa una
strana incisione,
raffigurante un “pesce
sconosciuto”, per usare
le stesse parole di
Cabrera. Incuriosito da
quello strano disegno,
Cabrera condusse alcune
ricerche e, con evidente
stupore, scoprì che il
pesce rappresentato su
quella pietra era un
agnathus, una specie
estinta da varie
migliaia di anni.
Sorpreso dalla sua
scoperta, Cabrera chiese
al suo amico Romero la
provenienza del suo
dono: quella pietra,
insieme a molte altre,
erano vendute per pochi
soldi dai contadini di
Ocucaje.
I contadini di Ocucaje,
infatti, erano soliti
arrotondare i guadagni
derivanti dalla
lavorazione della terra
dedicandosi un’attività
clandestina, ma molto
più redditizia: il
saccheggio delle tombe,
che, come detto prima,
in quella zona abbondano
per numero e ricchezza.
In quechua, l’antica
lingua del luogo, si
indica con il termine
huaca ogni oggetto
sacro: siccome i doni
lasciati a corredo dei
defunti sono considerati
sacri, viene chiamato
huaquero chi li ruba.
Quando gli haqueros,
visitando quelle antiche
tombe, trovarono
inaspettatamente
centinaia di pietre con
disegni totalmente
diversi da quelli delle
ceramiche e di qualsiasi
altro reperto Nasca o
Paracas, pensarono,
evidentemente, che si
trattasse di sassi privi
di valore archeologico e
cominciarono a venderli
nei loro mercatini ai
turisti.
Ma torniamo a Cabrera.
Spinto da un
irrefrenabile spirito
indagatore e da una
enorme curiosità per
l’oscura origine di
quelle pietre, Cabrera
venne a sapere che anche
il Museo Regionale di
Ica ne possedeva alcuni
esemplari, i quali,
però, non erano esposti
in quanto ritenuti dei
falsi ad opera degli
huaqueros, i contadini
del deserto Ocucaje.
Rifiutata, da parte del
direttore del museo
Adolfo Bermúdez,
l’ipotesi di verificarne
l’autenticità, Cabrera
decise di muoversi per
conto proprio e studiare
da solo le pietre.
Cabrera cominciò,
allora, a raccogliere
quante più pietre
possibile, acquistandole
sul mercato e
ricercandole
personalmente nella zona
di Ica, a studiarle e
catalogarle. Alla fine,
riuscì a mettere insieme
una collezione lapidea
di circa 15.000 pietre,
che decise di esporre a
proprie spese presso la
Casa della Cultura di
Ica, alla cui direzione
era stato chiamato da
poco.
Prima di procedere e di
affrontare la “storia
della storia delle
pietre”, vediamo di dare
loro un’occhiata più
ravvicinata.
Dal punto di vista
scientifico, le pietre
sono fatte di andesite
di matrice granitica,
una roccia di fiume
semi-cristallina
formatasi nel corso del
Mesozoico (circa 250
milioni di anni fa,
dunque) dalla
disintegrazione del
massiccio andino. Le
loro dimensioni sono
diverse: le più piccole
non sono più grandi di
una decina di
centimetri, le più
grandi arrivano circa ad
un metro di larghezza;
sono di colore grigio, a
causa dell’ossidazione
naturale, avvenuta circa
12.000 anni fa, e con
una durezza calcolata in
4.5 punti sulla scala
Mohs. Lo strato di
ossido è presente su
tutta la superficie
della pietra, anche
all’interno dei solchi:
questo ci fa supporre,
abbastanza logicamente,
che i solchi siano stati
praticati in un periodo
antecedente al momento
in cui è iniziato il
processo di ossidazione.
Insomma, se la datazione
geologica è esatta, si
può concludere che i
solchi hanno almeno
12.000 anni.
Conclusione, inutile
dirlo, sconvolgente:
infatti, le prime
popolazioni (primitive)
si stanziarono in
America tra i 10.000 ed
i 20.000 anni fa e
risulta difficile
immaginare che una di
queste abbia avuto la
conoscenza tecnologica
per incidere un
materiale come
l’andesite, la cui
durezza relativa è molto
vicina a quella del
diamante. A supportare
l’inesattezza di questa
ipotesi, poi, concorre
un altro fattore,
probabilmente quello
fondamentale e,
contemporaneamente, il
più sconvolgente: i temi
dei disegni. Sulle
pietre, infatti, sono
presenti raffigurazioni
di dinosauri, animali
estinti, operazioni
chirurgiche, strumenti e
tecnologie di recente o
recentissima messa a
punto e molti altre
conoscenze che,
certamente, non potevano
essere in possesso di
civiltà così antiche.
Utilizzando la
classificazione di
Cabrera, le incisioni
sono suddivisibili nelle
seguenti categorie:
·
animali preistorici;
·
astronomia ed
astronautica;
·
antichi continenti;
·
cataclismi planetari;
·
medicina;
·
razze presenti sul
pianeta;
·
flora e fauna;
·
esodo di uomini sulla
Terra;
·
strumenti musicali.
Vediamo di analizzarne
brevemente alcune. Per
quello che riguarda la
prima categoria, va
detto, innanzitutto, che
molte pietre appaiono
molto simili,
differenziandosi
soltanto per piccoli
particolari: alla luce
di questo, Cabrera
ipotizzò (e lo studio
diretto lo confermò) che
determinate pietre dai
disegni simili potessero
appartenere ad una
stessa serie. Per
esempio, in una serie
composta da ben 205
pezzi, Cabrera trovò
descritto il ciclo
riproduttivo e lo
sviluppo dell’Agnato (un
pesce paleozoico
sprovvisto di mascelle,
estinto da 400 milioni
di anni); un’altra serie
rappresenta il ciclo
evolutivo dello
Stegosauro, un’altra del
Triceratopo (che provano
che questi animali si
riproducevano come gli
anfibi), un’altra
ancora, formata da 48
pietre, rappresenta
l’evoluzione del
Megachirottero, una
sorta di antenato
gigante del pipistrello,
che le pietre dimostrano
essere stato oviparo e
non viviparo, come da
molto tempo si pensa.
Ancora, troviamo molte
raffigurazioni di
dinosauri del periodo
Mesozoico, come per
esempio il Tyrannosaurus
Rex. Altre pietre
raffigurano uomini
(dalla testa
spropositata rispetto al
corpo) a cavallo di
quelli che sembrano
dinosauri (per esempio,
su una pietra si possono
osservare due uomini che
cavalcano uno
Pterodattilo mentre, con
un cannocchiale,
osservano uno
Stegosauro); altre
ancora in atteggiamenti
simili a quelli che,
oggi, noi potremmo
tenere con i nostri
animali domestici.


Queste raffigurazioni
fanno pensare che, in
passato, ci sia stato un
periodo in cui uomini e
dinosauri siano vissuti
insieme e
contemporaneamente. Tale
ipotesi, oltre che dalle
pietre di Ica, come
appena visto, è stata
“confermata” dal
ritrovamento, presso
Acambaro, nella Sierra
Madre, in Messico, sono
state rinvenute strane
statuette che
raffigurano uomini, in
abiti di foggia
orientale e provvisti di
varie armi, in compagnia
di animali preistorici.
Nel 1945 Waldemar
Julsrud, commerciante
tedesco, durante un giro
a cavallo nel suo ranch
trovò una figurina di
ceramica rossastra di
questo tipo. Con l’aiuto
del suo collaboratore
indigeno, Julsrud riuscì
a metterne insieme ben
33.000. Queste statuette
raffiguravano dinosauri,
brontosauri, serpenti,
cammelli, con personaggi
con volti, statura e
vestiario ogni volta
differenti tra loro;
rappresentavano figure
femminili che giocano
con coccodrilli e
stegosauri, in
atteggiamenti che si
assumono nei confronti
degli animali domestici.
Nel 1972 queste
statuette furono
esaminate nei laboratori
americani e datate al
2500 a.C.. Circa
cinquemila anni fa,
però, non esistevano i
dinosauri e, cosa assai
più misteriosa, nessuno
sapeva che fossero
esistiti. A confermare
la c onvivenza
di umani e dinosauri
anche impronte umane
fossilizzate insieme a
quelle dei dinosauri,
molti esempi delle quali
si trovano nel libro di
Michael Cremo e Richard
Thompson intitolato
Archeologia proibita: la
storia segreta della
razza umana. A Carson
City, nel Kentuky sono
state ritrovate impronte
di piedi e di calzature
in uno strato antico di
110 milioni di anni. A
Laetoli in Tanzania, le
tracce fossili umane
sono mescolate a quelle
dei dinosauri. A
Macoupin nell’Illinois
orme umane fossilizzate
si trovano in uno strato
del Carbonifero e
risalenti quindi a 300
milioni di anni fa. Nel
Canyon Havasupai si
trovano le pitture
murali di un T-Rex, nel
Big Sandy River quelle
di uno Stegosauro. Nel
Turkmenistan una
impronta umana è accanto
a quella di un animale
preistorico. Dalla
posizione delle impronte
sembra che l’uomo stesse
cacciando l’animale. Nel
letto del fiume Paluxy,
in Texas, paleontologi
dell’Università della
California hanno
considerato autentiche
le tracce di impronte di
dinosauri e di piedi
umani. Altre impronte
umane fossili in
Messico, Arizona, Texas,
Illinois, New Messico,
Kentucky e altri stati
in rocce vecchie di 250
milioni di anni. Carl
Baugh, della
Pennsylvania State
University, in Texas
rinvenne, in uno strato
di roccia databile 140
milioni di anni fa, le
impronte dei piedi di un
uomo accanto a quelle di
un dinosauro.
L’incredibile scoperta
fu presto bollata come
un clamoroso falso; ma
nel 1984, a seguito di
ulteriori scavi nella
stessa zona condotti
dall’archeologo Hilton
Hinderliter, gli
scettici furono
costretti a ricredersi
in virtù del
ritrovamento delle
impronte di due sauri e
di un umano in uno
stesso strato geologico
risalente come minimo a
65 milioni di anni fa.
Nella stessa Ocucaje,
dal Dottor Jimenez del
Oso sono stati scoperti
scheletri umani vicino a
quelli di dinosauri.
Volendo fare un’ipotesi
razionale, si potrebbe
ipotizzare che la
rappresentazione di
uomini in compagnia di
dinosauri sia frutto di
una jungiana fantasia
archetipica: gli antichi
incisori hanno
immaginato l’esistenza
di esseri enormi e
giganteschi e, per
esorcizzarli e per
“imbonirli”, li hanno
rappresentati in loro
compagnia, come a voler
comunicare la
disponibilità a
convivere. Oppure, si
può ipotizzare che già
12.000 anni fa siano
esistiti uomini che,
rinvenuti casualmente e
studiati fossili di
dinosauri, abbiano
cercato di ricostruire
l’aspetto di quegli
antichi mastodonti.
Insomma, si può
ipotizzare che siano
esistiti dei
“paleo-paleontologi” i
quali abbiano
rappresentato, sulle
pietre, le loro
ricostruzioni,
ipotizzando, loro, che
uomini e dinosauri, in
passato, siano vissuti
insieme. A questo
proposito, riportiamo un
brano di una leggenda
degli indiani Zuni
(nativi del Nuovo
Messico) che sembra
descrivere, con
terminologia semplice e
mirata, il processo di
fossilizzazione.
«[...] vivevano sulla
terra mostri enormi
[...]. Poi gli abitanti
del cielo dicono a
questi animali: “Vi
trasformeremo in pietra,
così non potrete più
fare male agli uomini, e
recherete loro
conoscenza e
giovamento.” Dopo che
ciò fu detto la crosta
terrestre si indurì e
gli animali diventarono
di pietra [...].»
Si è osservato che molte
specie di dinosauri
rappresentati sulle
pietre non erano
presenti nella zona del
ritrovamento, dunque le
pietre sono sicuramente
un falso successivo, e
che la qualità delle
incisioni e delle
rappresentazioni
migliora nelle pietre
scoperte in tempi più
recenti. Una risposta ad
ogni obiezione. Neanche
oggi, noi, possiamo
sapere come fossero gli
stadi evolutivi degli
animali studiati da
Darwin, eppure,
utilizzando criteri
biologici ed
evoluzionistici, questa
ricostruzione è stata
possibile ed ora abbiamo
immagini abbastanza
precise. Considerando,
poi, il clamore
suscitato dalla
“faccenda” è ovvio che
molti falsari si siano
impegnati a realizzare
pietre che, per essere
appetibili dai turisti
di quelle zone, dovevano
anche essere “belle” da
vedere… Per quello che
riguarda la seconda
categoria, cioè
astronomia ed
astronautica, alcune
pietre di Ica
rappresentano alcuni
uomini intenti a
scrutare il cielo
notturno per mezzo di
telescopi.

Come si sa, il
telescopio fu inventato
dai navigatori olandesi
e perfezionato da
Galileo Galilei nel XVII
secolo. Sempre su queste
pietre, è possibile
osservare, in altro a
sinistra, uno strano
oggetto sferico seguito
da quella che sembra una
“scia”: secondo Cabrera
è possibile che si
tratti della
raffigurazione
stilizzata di una
cometa. In questa stessa
incisione sono
rappresentati anche i
pianeti di Giove e
Venere e un’eclissi di
Sole. Altre pietre
rappresentano 13 diverse
costellazioni, incluse
le Pleiadi. Un’altra
pietra, ancora,
rappresenta un
calendario astronomico
di 13 mesi,
probabilmente basato sui
cicli lunari. Su altre
pietre, ancora, possiamo
osservare le figure
tracciate sulla piana di
Nazca, come detto, non
troppo lontana da Ica:
su questo torneremo tra
poco.
Oltre al “volo su
Pterodattilo”, che
abbiamo visto prima,
altro mezzo di
locomozione aerea
rappresentato sulle
pietre è una sorta di
uccello meccanico, a
bordo del quale sono
riconoscibili uomini che
osservano o cacciano
dinosauri o mentre
scrutano il cielo,
solcato da corpi
celesti.
Passiamo dalle stelle
alla nostra Terra e
vediamo di analizzare
alcune pietre le
immagini delle quali
rientrano nella terza
categoria, quella degli
antichi continenti.
Secondo la teoria della
Tettonica a zolle o a
placche, illustrata da
Hapgood, i continenti
poggiano su zattere di
materiale galleggiante
su un mare di magma; i
movimenti di questi
continenti, oltre a
determinare, ovviamente,
il loro spostamento (la
famosa teoria della
“deriva dei continenti”,
elaborata da Wegener),
sono causa di terremoti,
eruzioni vulcaniche e
della formazione ed
innalzamento di catene
montuose, aperture di
mari, di laghi e
quant’altro. Secondo
questa teoria,
anticamente la posizione
dei nostri continenti
non era uguale a quella
che questi hanno
attualmente. Per
esempio, il Sud America
era unito all’Africa
occidentale, come la
forma delle coste del
Brasile, perfettamente
“incastrabile” con
quella del Golfo di
Guinea, dimostra. Ora,
una carta degli antichi
continenti terrestri è
presente su una delle
pietre di Ica.

L’incisione
rappresenterebbe la
disposizione degli
antichi continenti di
Atlantide, Mu, Lemuria e
del continente
americano. I geologi,
servendosi dell’aiuto
del computer, hanno
confermato che la forma
dei continenti e delle
terre emerse raffigurate
nelle pietre riproducono
con precisione la Terra
come doveva apparire 13
milioni di anni fa.
Le pietre di Ica non
sono gli unici documenti
che attestano
l’esistenza di
“continenti perduti”.
Nello Yucatan, in
Messico, per esempio,
William Niven trovò un
petroglifo che riportava
inspiegabili masse di
terra nell’Oceano
Atlantico e nell’Oceano
Pacifico; ancora, il
ricercatore James
Churchward ritrovò, in
Tibet, una tavoletta
raffigurante “due
continenti sconosciuti”.
Ma torniamo ad Ica.
Questa precisione nel
tracciare quella che
possiamo tranquillamente
definire “la prima carta
geografica della storia
dell’uomo” ha fatto
supporre che coloro che
la
realizzarono,
evidentemente, potevano
vantare un punto di
vista privilegiato dal
quale rilevare l’esatta
posizione dei
continenti: insomma,
tanta precisione fa
supporre che i
realizzatori
dell’incisione fossero
in grado di viaggiare
nello spazio. Questa
ipotesi troverebbe
conferma nelle figure
presenti su altre
pietre: su queste, sono
raffigurate navi
volanti, sospese in
aria. Alcuni hanno
ipotizzato che la loro
capacità di volare
(sempre se di questo si
tratta) sia dovuta ad un
campo elettromagnetico o
ad un propulsore
antigravitazionale. La
fantasia, in questi
casi, scavalca la
scienza. Comunque sia,
dando per buona questa
ipotesi, troverebbe
conferma l’ipotesi di
Cabrera secondo cui
Nazca altro non sarebbe
che un antico porto
spaziale per navi
volanti. Secondo Cabrera,
i tracciati andini
sarebbero stati
ricoperti, in passato,
da un materiale
sconosciuto,
superconduttore e
resistente alle alte
temperature, che
permetteva alle navi
spaziali di atterrare in
caduta libera senza
alcun danno. Conferma di
queste teorie venne nel
maggio del 1975, quando
il geologo Klaus Dikudt
dell’Università di Lima
disse di avere
rintracciato, lungo le
linee, “frammenti di un
materiale scuro,
traslucido,
infrangibile, leggero ma
estremamente duro, tanto
da rigare il quarzo. Il
materiale analizzato
aveva reagito in modo
anomalo a tutti gli
esami, ed era rimasto
intatto perfino
sottoposto ad una
temperatura di 4000
gradi. Non si trattava
di frammenti di
meteoriti. La
composizione e la
provenienza di questo
materiale resta ignota…”
La conferma della reale
funzione di Nazca, per
un circolo vizioso,
confermerebbe la
possibilità, per gli
antichi geografi di Ica,
di volare oltre i limiti
dell’atmosfera e
spiegherebbe, così,
l’esattezza dei contorni
degli antichi continenti
terrestri tracciati
sulle pietre.
L’incredibile precisione
delle carte è anche
confermata da un
“addetto ai lavori”.
Alcune pietre sono
tuttora esposte al Museo
Nazionale dell’Aviazione
Peruviana, a Lima, il
cui ex direttore, il
colonnello Omar Chioino,
fece riportare su carta
da esperti cartografi
dell’aviazione i motivi
incisi sulle sessanta
pietre del museo. Alcuni
disegni erano
incredibilmente simili
alle figure incise nel
deserto di Nazca. “Solo
chi è pratico di
procedimenti di
rilevamento topografico
può comprendere che tipo
di modello sia
necessario per riportare
in misure gigantesche un
disegno originale in
piccola scala, con
assoluto rispetto delle
proporzioni. I primi
devono aver posseduto
strumenti e sussidi di
cui non sappiamo nulla
[…]. Inoltre escludo la
possibilità di una
contraffazione […]: il
dottor Cabrera è stato
sotto la sorveglianza
del Servizio
d’Informazione negli
anni settanta e per un
lungo periodo di tempo.
Non è emerso nulla che
lo potesse incastrare.
La sua serietà è oggi al
di sopra di ogni
sospetto.”
Per parlare delle
incisioni raffiguranti
“cataclismi planetari”,
ossia la quarta
categoria di Cabrera,
dobbiamo fare nuovamente
riferimento alla
cosiddetta “pietra degli
astronomi”, che abbiamo
analizzato poco fa. In
essa si possono notare,
come già evidenziato
prima, due persone
intente ad osservare il
cielo per mezzo di un
telescopio: un oggetto
volante sale verso il
cielo mentre tre comete
precipitano verso la
Terra; le stelle sono
ritratte con un insolito
brillio, mentre
un’immensa nuvola
striata, che simboleggia
la pioggia, segue la
coda di una grossa
cometa. I continenti
appaiono semi sommersi
mentre una stella
precipita su quello che
appare come un
continente, oppure una
grande isola. Per alcuni
studiosi, questa
incisione raffigurerebbe
il grande cataclisma che
fa da fil rouge a tutti
i miti dei popoli della
Terra (dall’Antico
Testamento ai racconti
mitologici dell’antica
Mesopotamia, giusto per
fare un paio di esempi)
e che interessò la Terra
migliaia di anni fa. Le
prove concrete del suo
verificarsi si
troverebbero nello
strato d’iridio presente
nel suolo in notevole
quantità, presenza che
denota un incremento
spiegabile unicamente
con la caduta di
meteoriti e non
semplicemente con un
incremento di attività
vulcanica. La fascia del
minerale è spessa ben
cinquanta centimetri, il
che fa ipotizzare che un
grosso asteroide, o uno
sciame di asteroidi, o
la coda di una cometa,
abbiano incrociato la
traiettoria della terra.
Altri indizi di un
eventuale cataclisma ci
arriva dalla pietra
raffigurante gli antichi
continenti della Terra,
che abbiamo analizzato
poco fa. Sul perimetro
esterno si possono
notare gruppi di
piramidi i vertici delle
quali sono rivolti verso
i continenti, e,
tutt’intorno, una larga
striscia di linee
ondulate che sembra
indicare un accumulo di
vapore nell’atmosfera.
Sapendo che le piramidi
erano il simbolo di
sistemi che servivano
per captare, conservare
e distribuire energia
(come vedremo di
seguito), è evidente che
l’uso incongruo di tali
sistemi doveva aver
provocato una situazione
di squilibrio. Il
pianeta, ricevendo
calore dal sole e non
potendolo dissipare a
causa di quell’enorme
strato di vapore, era
diventato un sistema
termico chiuso. Giunto
al punto di massimo
accumulo, il vapore si
deve essere convertito
in acqua, precipitando
sulla terra sotto forma
di una pioggia
interminabile, un vero
diluvio, con conseguenze
spaventose. Nello stesso
tempo, l’eccesso di
energia calorifica
poteva avere intaccato
anche lo scudo di Van
Allen, l’involucro
magnetico che circonda
la terra e che la
protegge dalle
particelle ionizzate
emesse dal sole.
Quest’insieme di fattori
doveva aver provocato un
aumento di intensità nel
campo gravitazionale
della terra, con la
conseguente cattura di
corpi celesti che,
penetrando attraverso le
falle aperte nelle fasce
di Van Allen, colpirono
la terra con effetti
catastrofici. Cataclismi
di questo tipo, è stato
confermato da geologi ed
astronomi, sono una cosa
avvenuta con buona
certezza, nel passato
del nostro pianeta.
Riportiamo un fatto
curioso. Tanto per non
lasciare intatta nessuna
via di indagine, si
decise di far eseguire
ad una sensitiva in
stato di trance un esame
psicoscopico su una
pietra incisa, di cui
ella non conosceva né la
provenienza né la
storia. Questo il
risultato:
Vedo due individui. Un
occhio vigile che
guarda; un pungolo nella
mano dell’altro. Com’è
veloce il disegno! Quasi
nemmeno pensato ed è già
finito. E’ l’occhio di
chi guarda, però, che
sta guidando. La pietra
mi dice: pazienza e
osservazione. La vedo in
mezzo ad altre. Non a
caso i disegni sono
ripetuti in tutta una
serie. La soluzione è
nella serie: non c’è il
tre senza il due, non
c’è il quattro senza il
tre. Io vado dentro la
terra… vado a segnare.
Io segno, tu mi guardi.
Tu con gli occhi mi dici
quello che devo segnare
e io segno quello che tu
dici, perché tu sei che
sai. Io non so. Io
eseguo con la mano
quello che tu mi dici
con gli occhi, perché tu
sai. Tu sai la vita: tu
sai il prima e il dopo;
tu sai dirmi come sarà,
tu sai dirmi quello che
è stato. Io solo segno.
Altri ancora segnano:
altri già prima hanno
segnato”.
Improvvisamente la
sensitiva comincia ad
agitarsi e a respirare
affannosamente. “Acqua…
vedo acqua. Acqua che
bagna e liscia… acqua
che lava… lava anche il
ricordo! Lava tutto.
Quanta acqua! Quanta
acqua al passaggio di
chi è stato! Basta! Non
posso più tenere questa
pietra! Non la voglio
più! Toglietemela!… Ah,
la mia testa! Che
strano… la mia testa è
una pietra nera come
quella che avevo in
mano…
Come detto all’inizio,
molte delle pietre di
Ica rappresentano anche
operazioni chirurgiche.
E le operazioni erano
veramente di qualunque
genere: trasfusioni,
agopuntura con funzione
anestetica, parti
cesarei, rimozione di
tumori, operazioni a
cuore aperto (ricordiamo
che siamo in anni
antecedenti alle prime
operazioni di Christian
Barnard), a polmoni e
reni, addirittura al
cervello. Altre figure
mostrano come i
pazienti, prima di
essere operati, fossero
intubati e collegati a
macchinari di
alimentazione cardiaca;
altre ancora mostrano
strumenti chirurgici di
estrema precisione; in
altre ancora i corpi
sono stati raffigurati
in trasparenza, in modo
che possano essere
visibili gli organi
interni, a testimonianza
dell’avanzata conoscenza
e a sottolineare che la
struttura fisica degli
individui era uguale
alla nostra. Si tratta
di raffigurazioni tali,
è pleonastico dirlo, da
far supporre un’estrema
conoscenza medica da
parte degli autori delle
incisioni. Per far
capire come questa
conoscenza fosse
stupefacente, faremo
soltanto un paio di
esempi. Come detto,
molte incisioni
rappresentano operazioni
di trapianti d’organo.
Una costante di ogni
rappresentazione è la
presenza, nella scena di
una donna incinta: in
ogni scena, la donna è
collegata, tramite una
sorta di cannula
inserita nell’arteria
radiale, sia al cuore
rimosso dal donatore,
sia al paziente
ricevente. E’ evidente
che la donna sta
trasfondendo il proprio
sangue sia al donatore
che al ricevente.
Riflettendo su questo
punto Cabrera ipotizzò
che nel sangue delle
donne in gravidanza vi
fosse una sostanza (un
ormone, un enzima)
capace di bloccare o
limitare il problema
principale dei
trapianti, cioè il
rigetto. Nel 1980 due
medici, Ronald Finn e
Charles St. Hill di
Liverpool, condussero
una serie di esperimenti
legati alle intuizioni
di Cabrera. Operarono
trapianti di fegato, di
reni e di cuore in
animali trasfusi con
plasma prelevato da
femmine gravide e
notarono un sensibile
regresso dei fenomeni
legati al rigetto. I due
dottori non riuscirono
ad identificare la
sostanza che bloccava il
rigetto, ma ipotizzarono
che si trattasse di un
ormone
immuno-depressorio, cioè
un ormone diverso dal
progesterone (un ormone
femminile fondamentale
durante la gestazione e
la gravidanza)
conosciuto ed utilizzato
già dal 1934 e non
sempre rivelatosi
efficace per prevenire
l’aborto, che altro non
è che un rigetto. Questo
processo, come detto, ci
è noto soltanto dal
1980; gli autori delle
incisioni, invece, lo
conoscevano già. Altro
esempio: su una delle
pietre è rappresentato,
in tutte le sue fasi, un
trapianto di cervello.
Per noi si tratta di
un’operazione
impossibile da
eseguirsi: al nostro
livello di tecnologia,
siamo in grado di
mantenere le funzioni
vitali cerebrali, ma non
di unire il cervello
trapiantato al bulbo
rachideo, al midollo
spinale, ai numerosi
nervi presenti. Gli
autori delle incisioni,
però, pare fossero in
grado di farlo.
La conclusione di
Cabrera fu che gli
autori di quelle pietre
avevano raggiunto una
vasta e profonda
conoscenza della scienza
medica. Le cinquanta
pagine del V capitolo
del suo libro sono
dedicate alla
spiegazione di come
venivano eseguite
operazioni chirurgiche
molto complesse,
soprattutto quelle di
trapianto di vari
organi. Quanto alle
terapie mediche, unendo
le conoscenze desunte
dalle incisioni con
quelle acquisite dalla
moderna medicina
occidentale, Cabrera ha
proposto un nuovo
ordinamento molecolare
che ha descritto in una
tesi dal titolo Teoria
Biomicrofisica di
Immunologia del Cancro,
a cui ha collaborato il
suo assistente, il
dottor Luíz Cáhua Acuña.
Per quello che riguarda
la “flora e fauna”, su
alcune pietre si possono
osservare, oltre ai
dinosauri, molte specie
animali comparse molti
anni dopo i grandi sauri
e non tutti appartenenti
alla fauna delle
Americhe, quali struzzi,
canguri, pinguini,
cammelli e altri. Tra
gli “altri”, vi è la
rappresentazione di
cammelli e lama con
zampe di cinque dita.
Esaminando le incisioni
ano cavalli e lama con
cinque dita, Cabrera si
ricordò che un
archeologo peruviano,
Julio C. Tello, aveva
pubblicato uno studio
sui queros (stoffe con
figure intessute) di
stile Tiahuanaco in cui
erano rappresentati lama
con cinque dita, come
nei lama preistorici e a
differenza di quelli
attuali, che hanno
zoccoli bipartiti.
Alcuni studiosi avevano
giudicato quei disegni
come il prodotto della
fantasia di artisti
pre-colombiani che
avevano voluto
umanizzare i lama. Ma, a
distanza di pochi anni,
lo stesso Julio Tello
aveva scoperto scheletri
di lama con cinque dita.
Questo ritrovamento, che
avrebbe dovuto
interessare archeologi e
paleontologi, passò del
tutto inosservato, così
come era stata ignorata
la scoperta di
antropologi indiani,
comunicata alla
Accademia delle Scienze
dell’U.R.S.S. nel 1973,
di fossili umani
estratti da rocce
mesozoiche (fra i 230 e
i 63 milioni di anni
fa). Cabrera ebbe questa
notizia dal dottor A.
Zoubov, antropologo
russo e membro
dell’Accademia delle
Scienze, in occasione di
una sua visita per una
serie di conferenze nei
paesi latino americani.
Parlando, invece, delle
razze della Terra, su
alcune pietre si possono
distinguere esseri
all’apparenza simili
agli uomini, ma dotati
di cosa. Secondo un
importante ricercatore,
Charroux, che
incontreremo anche in
seguito, si tratterebbe
di una civiltà a metà
fra uomini e sauri.
Un’ipotesi che trova
conferma in molti
racconti mitologici
antichi, i quali narrano
e riportano di “uomini
simili a lucertole”.
Viste più da vicino “le
pietre dello scandalo”,
torniamo ora a
tracciarne per sommi
capi la storia.
In effetti, parlando
delle pietre di Ica, si
è soliti far cominciare
la loro “storia” dallo
studio condotto da
Cabrera. Le cose, però,
non stanno proprio così.
Le pietre e le incisioni
su di esse, infatti,
erano conosciute dagli
abitanti della zona
dell’Ocucaje fin dal
‘500, come ci testimonia
il cronista indio Juan
de Santa Cruz Pachacuti
Llamqui: nella sua
opera, Juan descrive le
piedras manco, ossia
“pietre di potere” con
estrema precisione,
scrivendo anche come,
durante il regno del re
inca Pachacutec, in base
ad un’antica tradizione,
esse facessero parte del
corredo funerario dei
nobili. Un altro
riferimento compare
anche nel Noticias
Historiales, opera dello
spagnolo Pedro Simon
conservata presso la
Biblioteca Nazionale di
Parigi e risalente al
1626.
In tempi più vicini ma
sempre antecedenti a
Cabrera, poi, furono
Pablo e Carlos Soldi ad
interessarsi alle pietre
ed ai loro misteriosi
disegni. Proprietari di
grandi haciendas vicine
a Ocucaje, incuriositi
dai disegni, che
giudicarono opera di
fantasia di artisti
sconosciuti,
cominciarono a
raccogliere quante più
pietre possibile, tanto
che nel giro di pochi
anni collezionarono
migliaia di pezzi. Altri
seguirono il loro
esempio e, tutti
convinti di trovarsi di
fronte a qualcosa di
eccezionale, chiesero
alle autorità di avviare
delle indagini per
scoprire il luogo del
ritrovamento, luogo che
gli huaqueros
mantenevano ben segreto,
e di iniziare uno studio
scientifico delle
pietre. Ma
inspiegabilmente, fin
dall’inizio, ci fu un
atteggiamento ostile da
parte degli organi
competenti, che poi
diede origine a due
opposti gruppi in lotta
accanita: quello dei
sostenitori
dell’autenticità delle
pietre, e quello degli
oppositori.
Dopo i Soldi, venne
Cabrera. Mentre il
dottore organizzava la
propria collezione
presso la Casa della
Cultura di Ica, Cabrera
lesse un articolo di
Santiago Agurto Calvo,
rettore del Politecnico
di Lima, e Alejandro
Pezzia, archeologo
peruviano, comparso sul
supplemento scientifico
del quotidiano di Lima
El Commercio:
nell’articolo, i due
studiosi affermavano di
aver trovato,
nell’agosto di
quell’anno, pietre
simili a quelle di
Cabrera in tombe
databili ad un periodo
antecedente a quello
della civiltà Inca,
tombe nelle quali le
pietre erano
probabilmente utilizzate
come portafortuna o come
rappresentazioni di
divinità, come già
indicato da Juan de
Santa Cruz Pachacuti
Llamqui nella sua
cronaca.
La scoperta di Calvo e
Pezzia fu ripetuta dallo
stesso Calvo a Max Uhle
Hugel, una zona
archeologica protetta.
Lì, in una tomba
risalente al I secolo
a.C., Calvo raccolse
oltre cento pietre e le
fece analizzare
dall’Istituto di
Mineralogia del
Politecnico del Perù,
ottenendo il primo
risultato di un certo
rilievo: le pietre, in
base allo stato di
ossidazione che
ricopriva la superficie,
erano databili ad almeno
12.000 anni prima. Una
ulteriore conferma
giunse dal vecchio
collega di Calvo, Pezzia,
il quale rinvenne, in
un’altra tomba
pre-incaica, una pietra
incisa simile alle
Pietre di Ica.
L’articolo pubblicato da
Calvo e Pezzia attirò
presso Ica numerosi
scienziati ed eminenti
studiosi. Molti di loro,
anche senza aver
esaminato le pietre,
sentenziarono che si
trattava sicuramente di
falsificazioni, e
neanche troppo ben
elaborate, preparate
dallo stesso Cabrera. Il
sostenitore principale
di questa linea fu Roger
Ravinez, archeologo e
membro dell’Istituto
Nazionale di Cultura del
Perù, il quale ammise
che solo le due pietre
estratte dalle tombe da
Calvo e Pezzia erano
autentiche, mentre le
altre, in tutto simili,
erano soltanto falsi.
Che non tutte e
settantamila (tante si
stima siano state
vendute, fino al 1980,
dai contadini di Ocucaje)
siano certamente
autentiche, è cosa
sicuramente plausibile:
dopo il clamore destato
dal caso, il valore
commerciale delle pietre
era cresciuto
vertiginosamente, dunque
la loro vendita, per i
contadini, era ottima
fonte di ricchezza.
Tra i più importanti
“falsificatori” (in
spagnolo campesinos,
abili incisori pronti a
vendere finti reperti
archeologici per
raggranellare qualche
soldo con i turisti) di
Ica, stando a quanto da
loro stesso affermato,
ci sono due contadini,
Basilio Uchuya e Irma
Gutierrez, che, in
un’intervista rilasciata
a A. Rossel Castro per
una rivista archeologica
peruviana nel 1977, si
dichiararono autori
delle incisioni. I
soggetti, dichiaravano i
due, arrivavano dalle
fonti più varie
(fumetti, illustrazioni,
libri scolastici e
giornali); a lavoro
finito, bastava mettere
le pietre nel pollaio e
le galline provvedevano
a depositarci sopra una
patina d’antico.
Un’ipotesi plausibile,
ma impossibile per vari
motivi. Tanto per
cominciare, come detto
prima, le pietre erano
conosciute fin dal ‘500;
in secondo luogo, per
realizzare settantamila
incisioni, i due
contadini avrebbero
dovuto lavorare giorno e
notte per almeno
trent’anni, ad un ritmo
di una pietra al giorno!
Se si considera poi la
durezza relativa delle
pietre, vicina a quella
del diamante, il loro
presunto lavoro di
incisori va incontro ad
una difficoltà maggiore.
Considerando, ancora, le
analisi geologiche ed il
fatto che i due
contadini erano
praticamente analfabeti
e, di fatto, sprovvisti
di conoscenze
scientifiche anche
elementari (fondamentali
per la realizzazione
della maggior parte
delle incisioni e certo
non rinvenibili
solamente dalle fonti da
loro citate), le
affermazioni di Uchuya e
Gutierrez sono
definitivamente
smentite.
Non tutti, naturalmente,
sostenevano la falsità
delle pietre. Robert
Charroux, per esempio,
nel 1977 condusse
un’indagine all’insaputa
di Cabrera, andando a
intervistare i due
contadini presunti
autori delle incisioni.
Dopo essersi convinto
che questi mentivano,
nel suo libro L’Enigme
des Andes, confermò
l’eccezionalità della
scoperta di Cabrera:
“Accettando
l’autenticità delle
pietre la storia del
mondo dovrebbe essere
riscritta da capo, ma
gli uomini di scienza
non accetteranno mai di
fare una simile
rivoluzione”.
Dalla parte di Cabrera,
anche il ricercatore
francese Francis Mazière,
famoso per il
pionieristico lavoro
svolto sulla cultura
polinesiana dell’isola
di Pasqua: dopo un
accurato lavoro di
reperimento e studio,
nel 1974 Mazière ha
definito le pietre come
“l’enigma archeologico
più sconcertante del
sud-America”, escludendo
la possibilità di
falsificazioni.
Incurante della campagna
denigratoria che gli
veniva mossa da ogni
parte, Cabrera trasformò
il proprio studio medico
in museo e continuò lo
studio e la
classificazione delle
pietre. Come avevano
fatto Calvo e Pezzia
prima di lui, anche
Cabrera richiese a due
enti competenti, la
Compagnia di Ingegneria
Mineraria Mauricio
Hochshild e l’Istituto
di Mineralogia e
Petrografia
dell’Università di Bonn,
analisi sui suoi
reperti; le analisi
dell’Università di Bonn
furono condotte dal
dottor Eric Wolf, il
quale fornì un risultato
identico a quello della
Compagnia di Ingegneria
Mineraria Mauricio
Hochshild e a quello di
Calvo e Pezzia: le
incisioni sulle pietre
risalivano a 12.000 anni
fa.
Va detto, per inciso,
che, recentemente, il
ricercatore spagnolo,
Vicente Paris, ha
ottenuto una pietra dal
professor Cabrera
facendola analizzare a
Barcellona da José
Antonio Lamich del
gruppo di ricerca
Hipergea. Le analisi
purtroppo hanno dato
esito negativo,
rilevando segni di carta
abrasiva e lavorazione
recente. Cabrera ha
ammesso che parte della
sua collezione viene dal
campesino Basilio Uchuya,
uno dei principali
falsificatori delle
pietre, dunque è
possibile che la pietra
analizzata da Paris sia
un falso.
Confortato da questo
risultato, Cabrera
continuò lo studio delle
sue pietre.
Analizzandole, abbiamo
già visto quali furono
le sue incredibili
scoperte. Non abbiamo
ancora parlato, però,
della teoria di Cabrera
circa gli uomini
rappresentati nelle
pietre, probabili autori
delle incisioni. Per
introdurre queste
teoria, e per completare
l’analisi degli studi di
Cabrera, dovremo
osservare ancora una
volta le pietre da
vicino.
Studiando
sistematicamente un
gruppo di circa 500
pietre, Cabrera si
accorse che certi segni
(spirali, triangoli,
rombi, reticoli, foglie,
frecce, linee) si
ripetevano in posizioni
diverse, a seconda delle
diverse situazioni. Ne
dedusse che si doveva
trattare di una qualche
forma di crittografia.
Alla fine, con una buona
dose di intuizione e di
fortuna, riuscì a
interpretare il
significato di un buon
numero di segni e arrivò
a decodificare quella
specie di linguaggio
simbolico: la foglia era
il simbolo della vita e
indicava la
trasformazione
dell’energia solare in
energia elettronica; le
linee parallele erano il
simbolo della vita
vegetale, di un’energia
organica e biologica di
grado inferiore; le
quadrettature oblique e
le losanghe indicavano
la vita animale; le
linee verticali e
orizzontali, la vita
umana; le piramidi,
complessi energetici di
assorbimento, accumulo e
distribuzione di
energia.
L’elemento di questo
oscuro linguaggio fu
individuato da Cabrera
nella foglia. In molte
pietre, gli individui
impegnati in attività
importanti portavano dei
copricapo apparentemente
formati da piume (ma un
più attento esame rivelò
trattarsi di foglie),
mentre altri individui,
nelle stesse scene, ne
erano sprovvisti, quasi
a suggerire la presenza
di vari tipi con
caratteristiche diverse.
Cabrera contò più di
cento posizioni in cui
la foglia era collocata
all’interno delle
composizioni,
evidentemente per
suggerire differenti
interpretazioni a
seconda di come era
accostata ai vari
elementi. Cabrera si
chiese se la costante
presenza di foglie non
indicasse una funzione
particolare. In molte
incisioni, i raggi di
sole si insinuavano fra
le foglie dei copricapo
dei personaggi
importanti e terminavano
alla base delle loro
teste, proprio nella
zona della ghiandola
pineale, o epifisi,
presente alla base del
cervello, in prossimità
della nuca. Oggi
sappiamo che l’epifisi è
responsabile della
produzione della
melatonina, un ormone
legato al sistema delle
endorfine, che presiede
ai ritmi del sonno e
della veglia, e quindi
all’alternanza
energetica senza la
quale un organismo non
può reggere. Benché si
trovi all’interno della
scatola cranica, riceve
la luce del sole
attraverso un circuito
nervoso che trasmette la
luce dalla retina fino
alla ghiandola. Più di
venti anni fa, quando
l’epifisi veniva ancora
definita inutile, Javier
Cabrera rilasciò queste
dichiarazioni alla
rivista argentina El
Insolito:
Si sa che le foglie si
sviluppano per mezzo
della fotosintesi, e
perché la fotosintesi
avvenga è necessaria la
luce del sole, fonte
primaria di energia.
Allo stesso modo la
ghiandola pineale
cattura l’energia solare
cosmica e la trasforma
in un altro tipo
sconosciuto di energia,
che io chiamo energia
conoscitiva. Le foglie
che compaiono sulle
teste di alcuni
individui sono una
rappresentazione
simbolica di un mezzo
che permetteva loro di
stimolare il cervello,
per sviluppare le loro
funzioni conoscitive,
così come di convertire
l’energia solare e
cosmica in un tipo di
energia conoscitiva.
Sfruttando l’attività
della loro ghiandola
pineale, quegli esseri
erano in grado di
trasformare il corpo
organico in corpo
puramente energetico. Mi
chiedo se la nostra
umanità sarebbe in grado
di gestire una simile
fonte di energia.
Guardando a quanto
accade oggi con il
nucleare, direi di no.
Un altro dettaglio a
conferma del ruolo che
l’epifisi doveva avere
nel fornire non solo
energia conoscitiva ma
anche organica appare
nelle medesime incisioni
con gli individui
trafitti dai raggi di
sole. Le teste,
disegnate di profilo,
hanno una bocca
piccolissima, chiusa
dietro da una specie di
graffa, chiara allusione
al fatto che quegli
esseri non si
alimentavano per via
orale. Stupefatto
dall’enorme sapere di
quegli strani esseri,
come testimoniato dalla
varietà di conoscenze
rappresentate sulle
pietre, Cabrera decise
di chiamare quegli
antichi esseri “Antenati
Superiori” e definì la
loro civiltà “Glittolitica”.
E riguard o
il loro aspetto
inconsueto (corpi
piccoli e tondi da bimbi
e teste grandi con
profili adunchi da
vecchi):
Per quanto riguarda le
figure umane
rappresentate nelle
incisioni, anche se è
probabile che non vi sia
una estrema fedeltà ai
modelli, dato che si
tratta di disegni
simbolici, penso
tuttavia che per certi
aspetti non fossero
diversi da come
appaiono. E’ evidente la
sproporzione fra la
testa, il corpo e gli
arti. La testa è
voluminosa, e ancor più
il ventre; gli arti
superiori sono lunghi,
le mani hanno dita
sottili e il pollice non
è in posizione opposta.
Gli arti inferiori sono
robusti e corti. Dato
che la finalità
dell’umanità
glittolitica era
l’aumento delle qualità
intellettive per
incrementare e
conservare le conoscenze
acquisite, la
conformazioni fisica
degli individui dovette
adattarsi al costante
esercizio delle funzioni
conoscitive. Pertanto il
cervello doveva avere
dimensioni notevoli; le
braccia potevano non
essere robuste e le
mani, non dovendo
assolvere a funzioni
meccaniche, non avevano
bisogno di un pollice in
posizione opposta. Le
gambe corte e forti e il
ventre pesante, spostato
in basso, bilanciavano
il peso della testa,
sproporzionatamente
grossa.
I vari individui
appartenenti a un
diverso livello
evolutivo, che Cabrera
identificò in cinque
tipi differenti, sono
riconoscibili da certi
segni caratteristici che
rivelano le loro diverse
capacità e attitudini.
Ma da dove arrivavano le
conoscenze di questa
antica civiltà? Per
rispondere a questa
domanda, che si
ricollega ai cinque
gruppi evolutivi di cui
appena più sopra,
osserviamo ancora le
pietre. In una incisione
appare, in forma
simbolica, il processo
di trasmissione di
codici di conoscenza fra
esseri di diversa
struttura ed evoluzione.
Su un lato della pietra,
si può osservare il
disegno di un individuo
dal copricapo di foglie
(perciò un essere
superiore), mentre,
sull’altro lato, si nota
un essere dall’aspetto
quasi animalesco. Una
delle foglie che
coronano la testa
dell’essere superiore si
allunga fino a inserirsi
nella testa dell’altro
individuo: ricordando
che la foglia è il
simbolo della carica
energetica e
dell’evoluzione
intellettiva, è
evidente, in questa
incisione, l’allusione
alla possibilità di
trasmettere informazioni
da soggetto a soggetto.
Le incisioni
suggerirebbero, insomma,
che l’evoluzione umana
non sarebbe stata un
processo naturale e
spontaneo, ma sarebbe
stata programmata e
diretta da individui
appartenenti a una
civiltà più avanzata su
soggetti biologicamente
e intellettualmente
inferiori. Secondo
Cabrera, gli autori
delle incisioni
sarebbero stati proprio
questi individui che,
una volta ricevuti i
codici di conoscenza,
furono in grado di
tramandare quanto era
stato loro trasmesso.
Visti tutti questi
fatti, cerchiamo di
tirare le somme di
quanto detto finora.
Secondo Cabrera, in base
a quanto riportato dalle
pietre, almeno 12.000
anni fa (ma forse anche
65 milioni di anni fa)
sulla Terra sarebbe
esistita una razza, la
razza Glitolitica, in
possesso di conoscenze
scientifiche al di là di
ogni nostra
immaginazione. L’origine
di questa razza rimane,
naturalmente, avvolta
nell’oscurità. Per
Cabrera potrebbe
trattarsi di una razza
di origine
extraterrestre,
insediatasi in Perù ed
entrata in contatto con
i primi ominidi, i quali
sarebbero stati oggetto
di esperimenti per
un’evoluzione guidata
del genere umano. Questa
teoria conferma quella
espressa nel volume
Perù, incidents of
travel and explorations
in the lands of Incas,
pubblicato a New York
nel 1887. L’autore,
Ephraim George Squier,
un archeologo nord
americano, dopo aver
studiato minuziosamente
le civiltà dell’antico
Perù, si era convinto
che nella storia
peruviana erano esistite
due distinte epoche
culturali: una situata
in un tempo molto
lontano, detentrice di
una conoscenza
scientifica molto
avanzata, e l’altra,
quella degli Incas, di
un livello culturale
molto più basso. Squier
pensava che fra queste
due culture doveva
essere intercorso un
tempo difficile da
precisare, ma enorme.
Era anche convinto che
le gigantesche
costruzioni sparse nel
territorio peruviano
erano la testimonianza
di una tecnologia
avanzatissima,
patrimonio di una
umanità sconosciuta.
Trovandosi nelle
vicinanze di un’immane
catastrofe planetaria
(forse quella che ha
causato l’estinzione dei
dinosauri, causata da un
evento naturale o da un
uso sbagliato della
propria tecnologia),
questa civiltà,
consapevole della
propria fine, avrebbe
affidato a delle pietre
la memoria della propria
esistenza, della propria
cultura e della propria
sapienza ed un monito a
non commettere gli
stessi errori. Scomparsi
i glittolitici
(estintisi o, più
probabilmente, ripartiti
verso il proprio mondo
di origine, che Cabrera
individua nelle Pleiadi,
[coincidenza: in Perù,
il giorno di San
Giovanni si festeggia l’Inti
Raimi, il dio Sole:
ricordando il momento in
cui la Terra si trovava
perfettamente allineata
con il Sole e le
Pleiadi]), la Terra
sarebbe ripiombata nella
preistoria, facendo
diventare ciò che era
realtà un mito, un
racconto di
fantascienza, un’assurda
fantasticheria.
Siamo alla conclusione
della storia. Anche
perché il suo più
importante personaggio,
il dottor Cabrera, è
scomparso di recente e,
con lui, è venuto
scemando anche
l’interesse per le
pietre di Ica. Quale sia
la verità, probabilmente
non lo sapremo mai.
Però, osservando quelle
pietre, non si può non
pensare che il passato,
a volte, potrebbe dover
ancora venire.
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