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Antichi Visitatori: la Lastra di Palenque
a cura di Luca Berto

Giugno 1952. Messico, sito archeologico della città di Palenque. Dopo tre anni di lungo lavoro, tre anni di tenace lavoro per liberare quell’imponente edificio dal soffocante abbraccio della vegetazione, finalmente l’uomo poteva entrare nelle antiche stanze di quella poderosa costruzione ed esplorarle. Faceva caldo, molto caldo, l’aria era umida e lo faceva sudare copiosamente, inzuppando e facendo aderire gli abiti al corpo. Come se non bastasse il quadro climatico equatoriale, anche l’eccitazione per la scoperta aveva il suo peso nello scombussolare il suo bioritmo e la sua situazione emotiva. L’uomo osserva gli spessi muri della costruzione, ne osserva le decorazioni e prova ad immaginare quante e quali mani abbiano realizzato quelle opere incredibili. Quell’edificio, anticamente luogo di culto dedicato al re Pacal, era conosciuto come “tempio delle iscrizioni”, poiché al suo interno si potevano ammirare ben 617 glifi, l’antica forma di scrittura del popolo dei Maya. Il suo sguardo si posa poi sul pavimento, un pavimento che, pensa, era stato calpestato per l’ultima volta centinaia di anni fa da uomini che erano diventati ormai polvere. La sua attenzione viene attirata da un particolare: le pareti del tempio sembravano non congiungersi al pavimento, ma andare oltre; in un punto del pavimento stesso, poi, l’uomo osservò strani fori praticati sulla superficie di una lastra e coperti con una doppia fila di tasselli in pietra. Si avvicinò per esaminarli e notò che si potevano asportare e che si potevano infilare le dita nei fori. Decise allora di chiamare i suoi uomini e di far sollevare la lastra, nella speranza che al di sotto potesse esserci qualcosa. Sollevata la pesante pietra, ecco apparire ai suoi occhi un oscuro cunicolo invaso dai detriti. Nell’uomo l’eccitazione andò aumentando e non senza emozione ordinò ai suoi uomini di ripulire la scalinata che, attraverso il cunicolo, si snodava obliquamente nelle profondità della terra. Terminate le operazioni di ripulitura, l’uomo decise di inoltrarsi nel cunicolo. Alla fine discesa, lunga 45 scalini, l’uomo si ritrovò in un pianerottolo rettangolare sul quale si aprivano due pozzi, destinati un tempo, con tutta probabilità, all’entrata sia della luce che dell’aria. L’uomo ed i suoi compagni osservarono notarono poi un’altra scalinata, che si snodava sempre più in profondità nella terra. Percorsa anche quell’altra rampa, ad ormai trenta metri di profondità l’uomo si trovò davanti un corridoio orizzontale sbarrato da un muro; rimosso anche questo ostacolo, apparvero, sparsi a terra un po’ dovunque, vasi, oggetti di giada ed anche una perla. La presenza di questi reperti assumeva importanza determinante nella circostanza, soprattutto perché ricordavano i doni sacrificali posti davanti o comunque in prossimità delle celle funerarie egizie. Oltre questi oggetti, furono rinvenute le ossa di sei individui, cinque uomini e una donna, probabilmente sei giovani nobili sacrificati o sacrificatisi a custodia di qualcosa di molto importante. Percorrendo ancora il corridoio, l’uomo giunse infine davanti ad una porta sbarrata. Con un nodo alla gola, l’uomo aprì anche quella porta: ciò che vide oltre fu una stanza triangolare di 10 metri per 4 ed altra 7 metri, le cui pareti erano completamente ricoperte di geroglifici e bassorilievi rappresentanti i “nove signori della notte”, i guardiani dei nove regni degli inferi della mitologia maya. Al centro della stanza, come mai avrebbe immaginato, un sarcofago di pietra. Solo questo fatto rappresentava una scoperta incredibile, visto che mai era stata rinvenuta una tomba maya con una sepoltura: i templi avevano sempre avuto funzione di luogo di culto, mai di luogo di sepoltura. L’uomo si avvicinò ad esso e ne toccò la superficie. Chiuse gli occhi e cercò di immaginare scavatori e decoratori che si affaccendavano nella realizzazione di quell’immane sepolcro. Poi aprì gli occhi ed osservò il coperchio del sarcofago: i disegni su di esso erano assolutamente unici ed altrettanto misteriosi. Desideroso di andare avanti nell’esplorazione di quella stanza (dopotutto era il suo lavoro), l’uomo ordinò che il coperchio della tomba fosse sollevato. Alla luce delle torce apparvero i resti di un uomo con il volto coperto da una splendida maschera verde fatta di pezzetti di giada uniti a mosaico: gli occhi erano di conchiglia e le iridi di ossidiana. Tutto intorno erano sparpagliate un’infinità di oggetti preziosi.
Con un po’ di fantasia è probabilmente questa la scena cui avremmo assistito anche noi se, nel giugno del 1952, avessimo fatto parte della spedizione scientifica condotta dall’uomo protagonista del nostro breve racconto. L’uomo in questione era un archeologo messicano di nome Alberto Ruz Lhuillier. Il personaggi sepolto nella tomba era il re maya Pacal. La lastra a copertura del suo sepolcro è oggi nota come Lastra di Palenque. Oltre ad essere un oggetto archeologico estremamente importante, essa rappresenta anche uno dei più misteriosi ed eccitanti quesiti della storia. 

Prima di entrare nello specifico ed analizzare compiutamente la Lastra di Palenque, è opportuno delineare un breve tratto storio-social-politico della civiltà maya e del luogo dove la Lastra fu ritrovata, cioè la città di Palenque. 
La civiltà Maya fiorisce all’incirca tra il 100 ed il 900 d.C. La loro zona è molto vasta e copre i territori dell’odierno Messico meridionale, il Guatemala, l’Honduras, il Belize ed il Salvador. Inizialmente, la loro civiltà è organizzata in centri abitati non più ampi di piccoli villaggi; in seguito, però, forse per sfuggire all’influenza del popolo di Teotihuacan, si concentrano sempre più a sud. Tra il 200 ed il 300 inizia quello che gli studiosi chiamo “periodo classico”, caratterizzato dalla nascita di un grande numero di città e da una eccezionale fioritura di architettura, scultura, pittura, da un primato delle conoscenze scientifiche. I Maya praticano una scrittura a geroglifici e pittogrammi. Gran parte dei loro scritti sono stati bruciati dagli spagnoli conquistatori perché “opera del demonio”; soltanto tre testi si sono salvati e si trovano oggi nelle biblioteche di Dresda, Parigi e Madrid. Fortunatamente, moltissime iscrizioni su pietra si sono conservate. 
I Maya si basano su un calendario molto preciso, con due diverse misurazioni del tempo: una rituale di 260 giorni; l’altra solare, di 365 giorni divisi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno più un periodo aggiuntivo di 5 giorni. Altrettanto precise sono le loro conoscenze in campo astronomico (sanno calcolare con esattezza le eclissi di sole e l’anno di Venere). Queste conoscenze sono rese possibili da una profonda sapienza metamerica, soprattutto eccezionale per l’invenzione dello zero, sconosciuto ai Fenici ed ai Romani, introdotto in Italia dall’India agli inizi del 200. Tutte le conoscenze sono applicate ai campi astrologico-religiosi. Tutto fa pensare che sia esistito davvero un abisso culturale tra la classe sacerdotale e la classe dei contadini, costretti a lavorare nei campi con metodi primitivi. Non sappiamo dove siano avvenuti i processi di formazione di queste conoscenze, così come non sappiamo nulla circa la storia dell’insediamento maya: in quei luoghi non esiste nessuna condizione di base (niente terreno fertile, niente fiumi da utilizzare come mezzi di comunicazione, niente terreni pianeggianti, clima insopportabile) che permetta lo sviluppo di una civiltà.
Lo stato maya non esiste. Esistono molte città stato, indipendenti le une dalle altre. Al vertice della gerarchia sociale stanno i sacerdoti ed un monarca, da cui dipendono i capi dei villaggi; la società è composta da popolo minuto, contadini e schiavi. Il lavoro del contadino maya è faticoso, assorbito in gran parte a disboscare la foresta tropicale con rudimentali arnesi in pietra; si allevano cani, tacchini, api; gran parte del tempo è dedicato alla costruzione dei templi, giganteschi, fatti con materiali che spesso non si trovano nel luogo, ma vengono tagliati e spostati (come non si sa). 
La famiglia maya è monogamica; l’economia si fonda sulla caccia, sulla pesca, sulla coltivazione del mais. L’abbigliamento consiste in brache lunghe sino al ginocchio e decorate per gli uomini, di una gonna di cotone e una blusa, entrambe ricamate, per le donne; le classi superiori usano spesso ornarsi di giada e di piume. L’idea di bellezza è diversa rispetto a quella degli europei: ai neonati delle famiglie nobili viene serrato il cranio tra due assi, per produrre una deformazione ed un allungamento, segni di bellezza; lo strabismo è considerato una dote, sì che, per provocarlo, si appendono palle di legno agli occhi dei neonati; orecchie, labbra, naso vengono perforati per inserirvi degli ornamenti; i giovani amano dipingersi di nero, gli adulti di rosso. 
I Maya si distinguono o si dispersero per motivi sconosciuti: forse per una catastrofe naturale (ma è un’ipotesi poco probabile, visto che gli edifici sono integri ed intatti), forse per una rivolta contadina, forse per un’invasione straniera, forse per un aumento eccessivo della popolazione, forse per una circostanze di cause che provocò l’inaridimento del territorio e l’impossibilità di sfruttare l’agricoltura come unico mezzo di sostentamento. 

Vediamo ora di presentare la città di Palenque.

Pianta di Palenque. 1. Tempio della Croce; 2. Tempio della Croce Fronzuta; 3. Tempio del Sole; 4. Tempio delle Iscrizioni; 5. Palacio; 6. Struttura XIII; 7. Tempio XI; 8. Campo per il gioco della palla; 9. Tempio of the Count; 10. Gruppo Nord.

La città si trova nelle tierras calientes, dove si incontrano la piana del Campeche e gli altipiani del Chiapas, quasi al centro della penisola dello Yucatan, al confine tra Messico e Guatemala. Si dice che Palenque sia stata la più grande città dell’emisfero occidentale; poi, circa 11 secoli fa, senza un apparente motivo, la popolazione la abbandonò e la lasciò alla giungla. 
Quando nel 1519 Cortés sbarcò in Messico, Palenque era già una città fantasma sommersa dalla giungla. Il nome originario della città era Na Chan Caan, cioè “la casa del serpente piumato” o “gran città dei serpenti”; tuttavia, poiché si trovava vicino all’insediamento spagnolo di Santo Domingo di Palenque, che era stato circondato da uno steccato in legno per evitare gli attacchi da parte degli indios, l’antico centro maya fu ribattezzato proprio Palenque, cioè “steccato”.
Le rovine sono riscoperte una prima volta dal vescovo Numes de la Vega nel 1691. Tuttavia, bisognerà aspettare la fine del XVIII secolo perché uno spagnolo, Antonio del Rio, ne ritrovi le rovine. Nel suo rapporto del Rio scriveva che gli edifici avevano una architettura del tutto simile a quella romana, egizia e di altri popoli. La pubblicazione di questo rapporto fu ad opera di Paul Felix Cabrera che giunse alla conclusione che i Cartaginesi, prima delle guerre puniche (264 a.C.), erano giunti in Messico ed avevano dato origine al popolo degli Olmechi. Le sue ricerche, però, non avranno seguito, e Palenque sarà nuovamente dimenticata. Nel 1830 ci fu una riscoperta della città da parte di un soldato di ventura, Jean Frédéric Waldeck, che rimase nella zona per più di tre anni, realizzando diversi schizzi dei ruderi. Rimasta per secoli nascosta dalla vegetazione, la città fu riscoperta nuovamente nell’aprile del 1840 dall’avvocato americano John Stephens e dal disegnatore inglese Frederick Catherwood, i quali erano in marcia nella terribile giungla dello Yucatan, a circa 500 chilometri di distanza dall’antica città di Copan, un altro importante insediamento del popolo Maya. Essendo stati preceduti nel secolo precedente soltanto da spedizioni militari spagnole, e due non avevano con loro né dati né carte sufficienti per localizzare con precisione Palenque. Fu quasi un caso, quindi, il comparire improvviso fra la fitta vegetazione del primo lastricato stradale che li avrebbe condotti fino all’antica città. 
Gli scavi archeologici iniziarono soltanto nel 1930, diretti dall’archeologo M. A. Fernandez in collaborazione con F. Blom e Ruz Lhuillier. Fu nel corso di questi lavori che vennero riportati alla luce numerosi templi; soprattutto è da ricordare la scoperta del Tempio delle Iscrizioni che in futuro avrebbe rivelato una scoperta sensazionale.

Palenque, insieme ai centri cerimoniali di Copan, Tikal e Calakmul, fu considerata dagli antichi Maya come uno dei quattro angoli dell’universo. Secondo la tradizione, il fondatore della città fu Makin Pacal, nome che significa “Grande Scudo Sole”. Secondo gli antichi documenti, il sovrano Pacal era nato il 26 marzo 603 da Chan Bahlum Mo, suo padre, e dalla nobile Zac Kuk, membro di una delle famiglie locali dominanti. Salì al trono nel 615, all’età di 12 anni, e regnò per oltre 68 anni prima di morire il 31 agosto 683. Il 22 marzo 626 sposò Tz’ak Ahwal, da cui ebbe due figli, Chan Bahlum, designato come erede, e Chan Hoch Chitam. Durante il suo regno dovette affrontare due diversi attacchi sferrati dal signore della città di Calakmul, più altre guerre dalle quali Pacal uscì vittorioso, stabilizzando così il suo regno e garantendo il diritto alla successione sul trono di suo figlio. Questi gli succedette all’età di 50 anni e morì, nel 702, dopo aver regnato per 18 anni. Il regno di questi due sovrani, costruttori di quasi tutti gli edifici più importanti della città, coprì in pratica tutto il settimo secolo. Sempre secondo i testi, la costruzione del tempio cominciò nel 675 e fu completata nel 692 da Chan Bahlum nove anni dopo sua la morte. Sebbene il sito fosse già occupato nel I sec. a.C., la città conosce il suo massimo splendore nel VII sec. d.C., quando il regno è guidato dal sovrano Kin Pacal e poi da suo figlio Chan Bahlum. Il centro è un magnifico esempio di architettura maya di epoca classica, paragonabile solo a Tikal in Guatemala e a Copán in Honduras. Quello che oggi vediamo di Palenque non è che una minima parte di una città che si estendeva per ben 15 chilometri quadrati. Gli edifici più importanti, come il Gruppo della Croce, il Tempio delle Iscrizioni e il Palazzo, sono tutti databili ad un periodo che va dall’inizio del VII secolo alla metà dell’VIII secolo, quando Palenque e i suoi sovrani dominavano un vasto territorio. Palenque presenta uno stile architettonico di particolare bellezza: doveva apparire grandiosa al tempo del suo massimo splendore, con le piramidi dipinte di rosso avvolte dal verde cupo della vegetazione. L’utilizzo dello stucco, che ricopre interamente gli edifici, ha permesso agli artisti locali di creare decorazioni di elevato livello estetico. Palenque è la vera “capitale” dello stucco, la città in cui questo materiale si è meglio conservato grazie all’umidità della foresta tropicale, e che presenta più di ogni altra il gusto decorativo che dominava l’architettura maya. Dal punto di vista architettonico Palenque presenta caratteri unici, come i tetti inclinati a mansarda, che avevano forse la funzione di proteggere i delicati rilievi a stucco collocati sui muri esterni. Edifici singolari come la torre del Palacio o il Tempio delle Iscrizioni con la sua tomba nascosta, sanciscono l’originalità della cultura artistica di Palenque. Snelle cresterías, alte merlature traforate, elevano e alleggeriscono gli edifici. Le cresterías hanno una esplicita funzione estetica, slanciando i tozzi edifici che assumono una leggerezza formale superiore a quella concessa dalle spesse strutture murarie. 
Numerosi templi hanno struttura simile: sono elevati su piccole piramidi, sovrastati da merlature, ricoperti da rilievi in stucco, sia sulle pareti sia sul tetto. Internamente gli spessi muri lasciano liberi soltanto spazi angusti, un portico lungo tutta la parete d’ingresso e sul retro un santuario con due stanze laterali. In tali templi, di piccole dimensioni, i santuari ospitano i simboli del dio cui sono dedicati: lastre di pietra decorate in modo superbo, veri capolavori dell’arte precolombiana.Palenque, Palazzo, com'è e come doveva essere. Al centro della città, su una piattaforma alta 10 metri, venne eretto il cosiddetto Palacio. In realtà si tratta di più edifici che si addossano l’uno all’altro e che furono costruiti in un arco di 120 anni. La struttura più antica, attorno alla quale si sono sviluppate le successive, sarebbe databile al 600 d.C. circa, anni in cui Palenque era governata dalla regina Zak Kuk, madre di Pacal. Tutti gli edifici si aprono su delle corti interne e sono decorati con scene di incoronazione o di imprese dei sovrani e ciò fa pensare che l’intero complesso fosse usato come residenza per la classe dirigente o comunque come centro amministrativo del potere. Come in quasi tutte le città maya, le costruzioni di Palenque erano coperte da uno strato di stucco rosso, su cui spiccavano i rilievi dipinti in colori sgargianti, come giallo, verde e blu. I bassorilievi e gli stucchi del Palazzo sono di incredibile finezza stilistica e i personaggi sono ritratti realisticamente, come nella scena in cui Pacal riceve le insegne reali dalla regina-madre. Come simbolo del potere e della forza di Palenque appaiono numerose rappresentazioni di schiavi, talvolta anche di alto rango a giudicare dalle vesti sfarzose.
Davanti al Palacio, sulla riva opposta del fiume che attraversava la città, sorge un gruppo omogeneo di tre templi: il Tempio della Croce, quello della Croce Fogliata e il Tempio del Sole. Questo gruppo fu fatto erigere dal re Chan Bahlum (o Chan Balám - Serpente Giaguaro), figlio del potente sovrano Pacal, per celebrare la sua ascesa al trono nel 683 d.C. 
La struttura è simile per tutti e tre i templi: su una piattaforma artificiale o naturale si eleva un edificio a pianta rettangolare sul cui tetto si alza una cresta, in origine ornata con figure di stucco. Coperti da decorazioni erano anche gli spioventi del tetto e i pilastri che scandiscono la facciata. L’interno è diviso in tre stanze e quella centrale custodisce un piccolo santuario con pannelli a rilievo.
Il Tempio della Croce, il primo probabilmente ad essere stato costruito, venne chiamato così perché il grande pannello interno mostra un Albero della Vita (la ceiba che affonda le radici nell’Inframondo, attraversa il mondo degli uomini con il suo tronco e arriva al Cielo con i suoi rami) che agli occhi dei primi scopritori apparve come un Croce. Ai lati dell’Albero si vede il re Pacal che trasmette al figlio i simboli del potere.

Nel rilievo del Tempio della Croce Fogliata l’Albero della Vita è ornato da pannocchie di mais, un simbolo di fertilità rafforzato dall’immagine di Chan Bahlum che si appresta a compiere un autosacrificio. 
Il Tempio del Sole mostra invece dei giaguari e si pensa quindi che fosse dedicato ai sacrifici e alla guerra.

Il Tempio del Sole

Ai tre Templi erano associate altrettante divinità di cui non si conoscono i nomi e perciò chiamate “Triade di Palenque”. Citati anche nel libro sacro Popol Vuh, sono dei che rappresentano i diversi aspetti del Sole e che venivano considerati dai Maya i progenitori delle stirpi reali. Anche a Palenque una vasta area è destinata al Gioco della Palla (nell’area Maya si sono scoperti circa quaranta campi di gioco). Erano costruzioni rettangolari a forma di doppio T circondate da mura: un anello di pietra conficcPalenque, Tempio delle Iscrizioni.ato perpendicolarmente su una parete fungeva da porta attraverso la quale doveva passare il pallone. Venivano chiamati “campi di gioco degli dei”, perché il gioco era una vera e propria cerimonia religiosa. Il pallone era formato da una grossa palla di caucciù, massiccia ma anche molto elastica del peso di tre chilogrammi, la quale non poteva essere colpita, come ricorda il Codice Mendoza, “se non con la giuntura della coscia, o del braccio, o del gomito; chiunque la toccava con la mano o col piede o con qualunque altra parte del corpo perdeva un punto. Chiunque faceva passare il pallone per il buco, ciò che di rado accadeva, vinceva la partita”. Il senso profondo del gioco sta appunto nel suo valore sacrale: rimettere in moto il Sole, rinnovando ritualmente il gesto dell’Essere supremo che crea il cosmo, mettendo in moto tempo e spazio. Gli anelli di pietra recavano frequentemente l’immagine del Sole o simboli celesti sui due lati.  Già nell’VIII secolo la città subisce una sempre più forte influenza da parte di Toniná, un sito maya distante un’ottantina di chilometri, ma la definitiva decadenza e il successivo abbandono avvengono soltanto nel X secolo, probabilmente a causa dell’arrivo di nuove popolazioni provenienti dal Golfo del Messico. Gran parte della sua storia Palenque la porta scritta su i suoi monumenti sotto forma di rilievi o di glifi e l’universo maya si esprime attraverso le sue architetture: il mondo dei mortali è rappresentato dal Palacio e il mondo degli dei dai Templi del Gruppo della Croce, mentre il Tempio delle Iscrizioni è il luogo dove l’uomo si fa dio. 

Nonostante l’estrema bellezza ed il grande fascino del luogo, occorrerà concentrare la nostra attenzione sul Tempio delle Iscrizioni, il luogo all’interno del quale fu rinvenuta la Lastra. Il Tempio delle Iscrizioni (databile attorno al 690 d.C.) non è soltanto un luogo sacro, ma la testimonianza in pietra della dinastia più potente di Palenque. I pilastri della facciata sono decorati con stucchi che mostrano il re Pacal insieme al Dio Kukulkan, una divinità legata alla classe regnante. In origine i rilievi erano dipinti e i colori non venivano scelti a caso, ma avevano un significato ben preciso: il rosso serviva per dipingere il corpo umano e le parti umane delle figure antropomorfe ed era quindi il colore del mondo degli uomini; il giallo veniva usato per le immagini dei giaguari, delle piante acquatiche e dei serpenti, tutti simboli dell’Inframondo; il blu era invece il colore del Cielo e in questa tonalità erano rappresentati gli dei e gli attributi divini del re. 
Sulle pareti interne del Tempio sono scolpiti più di 600 glifi che illustrano quasi 150 anni di storia della città. Grazie a queste immagini l’epigrafista tedesco Heinrich Berlin riuscì nel 1958 a individuare i cosiddetti “glifi emblematici” (glifi che indicano nomi di sovrani o di città come i cartigli degli antichi egizi) che fecero fare un grande passo avanti per la decifrazione della scrittura maya.

Entriamo nel tempio e percorriamo le scale ed i corridoi che, più di 50 anni fa, Alberto Ruz Lhuillier percorse prima di noi. Alla fine della discesa troveremo la camera sepolcrale di re Pacal.

Spaccato del Tempio delle Iscrizioni e della tomba di Pacal    Le scale che conducono al sepolcro di re Pacal.

Una prima curiosità ci si para davanti non già sul sepolcro o sul suo coperchio, ma su una stele presente nella stanza. Abbiamo dL'oggetto in mano all'uomo della stele ed il moderno fucile mitragliatore a confrontoetto all’inizio che sulle pareti della stanza del sarcofago appaiono raffigurati i “nove signori della notte”, i guardiani dei nove regni degli inferi della mitologia maya. Vicino ad uno di questi, in piedi, appare un uomo: i suoi tratti somatici sono assai simili a quelli dell’uomo raffigurato sulla Lastra; i suoi abiti sono estremamente lussuosi ed eleganti (almeno per i canoni dell’epoca e per la cultura). Nella mano destra dell’uomo della stele uno strano oggetto non meglio identificato. A suffragare e rafforzare questa ipotesi, l’idea che quelle che vediamo all’estremità superiore siano fiamme, provocate, possiamo pensare, dalla detonazione del colpo o dalla fiamma del lanciafiamme. Insomma, è possibile che l’uomo raffigurato nella stele trovata nella camera sepolcrale di re Pacal sia un antico guerriero maya armato con un moderno fucile o lanciafiamme. 

Visto questo strano e misterioso personaggio, procediamo nella nostra esplorazione ed avviciniamoci al sepolcro.

La Lastra di Palenque ed il sepolcro.Prima di analizzare la Lastra, diamo un’occhiata a ciò che copriva. Il sarcofago nel suo insieme risultò collegato alla soglia della cripta con una strana modanatura di calce, che si trasformava poi addirittura in una condotta vuota. Questa seguiva le scale fino al congiungimento con la lastra rimossa dagli archeologi sul pavimento del tempio nel momento in cui fu iniziata l’esplorazione dell’interno della piraLa maschera di giada e madreperla che copriva il corpo del sarcofago.mide; una sorta di collegamento magico fra il sepolto (un probabile principe divinizzato), e l’Ah Kin Mai, ovvero il sommo sacerdote. Il sarcofago, all’interno intonacato di rosso cinabro, conteneva il corpo di un uomo posto in posizione supina e senza apparenti lesioni. L’uomo che vi era sepolto era chiamato halac uinic, ossia il “Vero Uomo”. Era alto 173 centimetri: fatto, questo, di particolare rilievo, visto che l’altezza media dei Maya era attorno ai 150 centimetri. L’età che approssimativamente si può assegnare al corpo contenuto nel sarcofago è circa 40 anni. Ora, iscrizioni varie affermano che quella era ed è la tomba di re Pacal, il quale visse per 80 anni, tra il 603 ed il 683. Considerando che il corpo contenuto nel sarcofago appare appartenere ad un uomo di 40 circa di età, possiamo fare due supposizioni: o Pacal non dimostrava i suoi anni, oppure quello non è il suo corpo. Abbiamo detto, più sopra, come fosse usanza estetica dei Maya quella di schiacciare il cranio dei neonati allo scopo di deformarlo. A dispetto di questa usanza, il corpo nel sepolcro non presenta questo tipo di deformazione (e neanche le altre caratteristiche deformazioni dentarie): questo fatto, unito al dato della sua relativamente impressionante altezza, ci può far supporre che il corpo contenuto nel sarcofago non sia quello di Pacal, forse nemmeno di un uomo maya. A suffragio di quest’ipotesi un altro fatto: l’ analisi del cranio nei punti “Glebella”, “Nasion”, Testa raffigurante probabilmente re Pacal.“Rinion” non corrispondono a punti uguali di un cranio di alcuna razza terrestre conosciuta. Il corpo appariva coperto da una maschera di giada e madreperla e presentava un grano di giada scura nella cavità orale, secondo l’usanza maya. Oltre a questo, nella mano sinistra fu ritrovata una perla sferica e nella destra una perla cubica. Una possibile interpretazione della sfera è che essa rappresenti la totalita’, la perfezione, il tempo oppure il cielo o la Terra stessa, mentre il cubo potrebbe indicare la determinazione di un punto nello spazio, attraverso le tre dimensioni, usando i tre assi cartesiani.  A completare il corredo funerario un diadema, orecchini, una collana, bracciali (ai polsi, formati da più di 200 perle), anelli (uno per ogni dito delle mani) e statuine, tutti in giada, nonché preziose teste a tutto tondo in stucco, forse ritratti del sovrano stesso. L’oggetto più interessante, oltre la maschera, è un pettorale composto da nove cerchi concentrici, costituiti ognuno da 21 perle, con al centro una perla falsa costituita da due ostriche perlifere unite. Tutti gli Studiosi concordano nell’affermare che i nove cerchi concentrici rappresentano le orbite dei nove Pianeti costituenti il Sistema Solare e la falsa perla rappresenterebbe il Sole. Questo è ciò che era contenuto all’interno del sarcofago. Accanto alla tomba furono trovate due teste di stucco: una è uguale al cranio dell’uomo, mentre l’altra è uguale al cranio di uomini appartenenti alla razza del popolo Maya, come la forma della testa suggerisce. 

I tratti somatici dello scheletro e di una delle due teste di stucco presentano gli stessi tratti somatici che appaiono nell’uomo che si trova sulla lastra posta a coperchio della tomba. 

Analizzato il contenuto del sarcofago, passiamo finalmente ad osservare la sua copertura, la famosissima Lastra di Palenque:

La Lastra, in originale ed in una ricostruzione a colori.

La Lastra misura 380 per 220 centimetri, con uno spessore di 25; il peso è stato calcolato essere attorno alle 5 tonnellate. Attorno all’orlo della Lastra corre un’iscrizione pressoché indecifrabile, ricca di segni e simboli; in essi gli studiosi riconobbero, ricavandole a fatica, tredici date, che permisero di datare l’opera al 692 d.C. e di risalire al nome del defunto, il re-sacerdote Pacal.
Come si può vedere dalle rappresentazioni più sopra, vi è rappresentato un uomo (poiché non vi sono evidenti segni da far supporre che sia una figura femminile) raffigurato in una strana posizione, come se stesse guidando una bicicletta moderna; le sue mani sembrano armeggiare su delle leve; la testa pare essere poggiata su un supporto (anche se è probabile che si tratti di un gioco prospettico); il volto è rivolto verso sinistra ed ha lo sguardo vigile di chi sta osservando qualcosa con grande attenzione; nel naso sembra essere inserito un oggetto dalla vaga forma triangolare. Davanti a lui, volendo usare un po’ di fantasia, tubi, utensili, apparecchi misti a simboli scolpiti alla rinfusa. Sul retro una grossa maschera che alcuni indicano come la raffigurazione del Sole. 
Le disquisizioni circa il vero significato della rappresentazione sono state, sono e saranno infinite. Vediamo di elencare quelle più plausibile o, perché no, quelle più affascinanti.
Secondo una spiegazione “tradizionale”, il bassorilievo mostra il re tra le fauci del Mostro Terrestre una divinità con sembianze di grosso rettile o dragone che si nutre dei corpi dei defunti, quasi con la funzione di riassorbirli nel proprio interno (così come da esso un tempo sono stati generati, secondo quella che appare essere un’allegoria della discesa nell’aldilà); sopra di lui sarebbe l’Albero della Vita, sulla cui sommità sta appollaiato Itzamná, il Dio Supremo nelle vesti di un ibrido metà uccello e metà serpente. La scena è arricchita ovunque da molte altre allegorie simboleggianti il mais, l’acqua, il fulmine, il sole e la luna e l’onnipresente Quetzal (nella parte superiore) una sorta di grosso pappagallo ritenuto un uccello sacro. Se proviamo per un attimo ad osservare altri numerosi esempi dell’arte della raffigurazione simbolica del popolo maya, potremo facilmente ritrovare molti degli elementi che costituiscono proprio la lastra tombale di Palenque; questo non perché in altri casi si sono voluti esprimere gli stessi significati, bensì perché ci troviamo di fronte ad una specie di alfabeto figurato componibile, in grado di essere costruito a seconda delle esigenza proprie del significato stesso.
Altra teoria “con i piedi per terra”: Adrian Gilbert e Maurice Cotterel, nel libro Le Profezie dei Maya, sostengono che sulla pietra sia raffigurata la dea Chalchiuthlique e con lei gli Dei Tlaloc, Tonatiuh e Ehecatl. I simboli e i disegni rappresenterebbero, in pratica, il Popol Vuh scritto, con la creazione delle razze e le loro relative distruzioni.
L’ipotesi che, però, pare più affascinante e più fantasiosa (e che inconsciamente soddisfa di più) è quella che vede raffigurato, nella Lastra di Palenque, un antico astronauta, magari neanche terrestre. Secondo quest’interpretazione, l’uomo della Lastra sarebbe un viaggiatore spaziale impegnato a manovrare i complicati comandi della propria astronave. Quelle nelle sue mani sarebbero dunque delle leve (forse i comandi della sua astronave) e quello attaccato al suo naso un respiratore. Alla luce di questo, ancora, quegli strani segni che sono presenti alle sue spalle rappresenterebbero le fiamme prodotte dal sistema di propulsione del suo mezzo di trasporto spaziale, mentre quelli davanti a lui, che qualcuno ha inteso a vaga forma di vortice, risucchi d’aria provocati dal movimento generato dal motore a reazione dell’astronave. Se vogliamo dare per buona questa ipotesi (cosa che non costa fatica e che soddisfa, ma che apre moltissimi problemi), allora le due teste di stucco presenti vicino al sarcofago acquisterebbero un significato particolare: la testa non deformata, uguale a quella dell’uomo contenuto nel sepolcro, posta vicino ad una testa maya deformata indicherebbe chiaramente come il corpo nel sarcofago non appartenga ad un maya. O magari neanche ad un essere umano. 

Dunque la Lastra di Palenque come rappresentazione di uno dei primissimi astronauti della storia dell’uomo. Apparentemente, questa teoria, per quanto sufficientemente logica, potrebbe stupire. Eppure, non deve essere così. Infatti, la storia e la mitologia di quasi tutti i popoli precolombiani del centro e del sud America è costellata dalla presenza di viaggiatori stranieri, spesso esplicitamente indicati come provenienti dalle stelle. Facciamo un esempio. I nativi della regione Chihuahua, in Messico, narrano di un antica leggenda, risalente a più di 200 anni fa, il cui protagonista sarebbe un certo “ragazzo delle stelle”. In sintesi, nel mito si parla di esseri venuti dalle stelle, che, scesi dal cielo, fecondarono le donne umane nei villaggi sperduti di questa popolazione. Alle donne fecondate da questi esseri alieni era permesso allevare i propri figli, detti anch’essi “figli delle stelle”, fin quando gli esseri delle stelle non sarebbero ritornati dal cielo per prelevare e portare via con loro nello spazio la loro progenie nata sulla Terra.
Questo è soltanto un esempio e, come detto sopra, di matrice mitica e leggendaria. Prove più concrete e logiche di queste antiche visite da parte di esseri provenienti dallo spazio sono state fornite da Alan Landsburg nel suo Alla scoperta di antichi misteri. Il punto di partenza per l’indagine condotta da Landsburg è, questa volta, geografico. In sud America, tra Perù e Bolivia, esiste un lago chiamato Titicaca. Nell’antica lingua degli abitanti di quel luogo, l’aymara, Titicaca significa “pietra del giaguaro”. Per quasi due secoli, nessuno studioso delle civiltà precolombiane seppe dare una spiegazione allo strano nome di quello specchio d’acqua in Perù. Soltanto grazie ai primi voli spaziali, alle prime spedizioni che abbandonarono la superficie del pianeta si poté dare una risposta a questo enigma: il lago Titicaca si chiama così perché dall’alto (e stiamo parlando di altitudini comparabili con quelle raggiunte da alcuni satelliti) il lago ha proprio la forma di un giaguaro. Visto questo fatto, la domanda sorge spontanea: come è stato possibile che una civiltà precolombiana potesse “indovinare” la forma di un lago quale appare da altitudini simili? L’unica spiegazione, secondo Landsburg, è che quegli antichi uomini fossero in grado di viaggiare nello spazio e che, proprio dallo spazio, abbiano visto la forma del lago. 
Poco distante da Titicaca, esiste un’antica città chiamata Tiahuanaco. Ormai questo centro abitato è piuttosto degradato e corroso dall’azione del tempo, ma, nonostante questo, conserva un fascino misterioso ed inquietante. Il mistero di questa città, in particolare, sta nel modo in cui essa fu costruita: i suoi muri, infatti, sono formati da enormi massi, giganteschi e massicci come megaliti, che sono stati squadrati e levigati, in modo che combaciassero tra loro senza alcun bisogno di intonaco od altri materiali collanti. In quelle mura non ci sono crepe ed è impossibile penetrare con uno scalpello tra un masso e l’altro. Ogni masso è scanalato perfettamente, in maniera da incastrarsi sopra il masso inferiore e tra i massi laterali. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, per costruire tali opere di muratura, si usasse un procedimento simile al seguente: un masso viene issato e fatto calare sopra un altro, allo scopo di determinare i punti congiunzione con quello sottostante e quelli laterali; in seguito, il masso viene di nuovo sollevato e posto su in fianco perché le scanalature siano realizzate; infine, il masso viene nuovamente issato e finalmente collocato nel muro in costruzione. Detto così, non ci sarebbe nulla di strano, in questo; ciò che fa riflettere, però, sta nell’enorme peso di ogni masso (circa 12 tonnellate) e nella posizione della città (la cima di un monte, certamente non agevole per la realizzazione di tali costruzioni e con questo procedimento). Una struttura analoga si trova presso la città pre-incaica di Ollantaytambo. Anche in questo caso, inutile dirlo, la costruzione di tali opere lascia sbalorditi tutti gli studiosi terrestri: un’opera così grandiosa, considerando la complessità della struttura, l’enorme peso dei materiali usati, è certamente incredibile per gli standard edili di quei tempi. Oltre a queste bizzarrie architettoniche, sulle mura di Tiahuanaco è possibile ammirare una stupefacente quanto estesa raffigurazione di guerrieri (piuttosto stilizzati, va detto, ma comunque sufficientemente ben delineati) in processione. Anche in questo caso, apparentemente nulla appare fuori posto. Il fatto incredibile, però, è che molti dei guerrieri rappresentati hanno fattezze e tratti somatici appartenenti a nessun popolo vivente, a quel tempo, in sud America: vi sono guerrieri dai tratti africani (con naso schiacciato e labbra piene e leggermente sporgenti), vi sono guerrieri dai tratti asiatici (con i caratteristici occhi a mandorla), vi sono guerrieri dai tratti caucasici e semitici.
Come è stato possibile, per gli abitanti di queste due città, costruire simili colossali opere? Come è stato possibile, per gli architetti e gli artisti di Tiahuanaco, rappresentare l’enorme varietà di popoli della Terra, a loro del tutto sconosciuti? A questi quesiti, sostiene Landsburg, ci sono due sole possibili: gli abitanti di Tiahuanaco e Ollantaytambo non erano terrestri, ma alieni; gli abitanti di Tiahuanaco e Ollantaytambo erano in contatto con esseri in grado di viaggiare liberamente sul nostro pianeta e, dunque, raggiungere paesi e popoli lontani. Secondo l’appena citato studioso, circa 14.000-13.000 anni fa, dallo spazio (l’unica altezza possibile per rendersi conto della forma del lago Titicaca) vennero alcuni visitatori extraterrestri. Tali visitatori si stabilirono in quella zona ed insegnarono a popoli là stanziati la tecnologia per costruire (o costruirono loro stessi) la due città descritte sopra. In seguito, sempre secondo la teoria, da quel luogo, questi visitatori si mossero in varie parti del Sud America: quando essi incontrarono dei popoli (Maya ed Inca, per esempio), insegnarono loro la propria tecnologia, creando, praticamente, le due civiltà precolombiane sudamericane che conosciamo e le loro incredibili, avanzatissime, realtà tecnologiche e culturali. Questi visitatori, secondo quanto narrato ad alcuni conquistadores spagnoli dagli stessi indigeni locali, erano in grado di curare i malati gravi e resuscitare i morti; erano in grado di prevedere importanti fenomeni celesti, insegnarono loro a contare. I nomi di questi visitatori e “maestri”, nelle culture sudamericane, sono Vicocha e Quetzacoatl. In seguito, come ci è testimoniato da alcune leggende locali, questi viaggiatori abbandonarono improvvisamente i loro amici terrestri utilizzando “tappeti che viaggiavano sull’acqua”, ma preannunciando il loro prossimo ritorno. Sempre secondo la teoria di Landsburg, millenni dopo le conoscenze dei visitatori furono trasmesse anche agli antichi Egizi, che le utilizzarono per la costruzione delle piramidi e per la creazione della loro splendente civiltà e cultura, forse la più avanzata del mondo antico. Ovviamente i dati raccolti da Landsburg non si fermano a questo, ma riguardano la maggior parte degli antichi popoli della Terra. Tuttavia, per pertinenza di argomento e per non subissare chi sta leggendo di una quantità infinita di dati, ci siamo voluti attenere agli elementi riguardanti le civiltà sudamericane. 
Dunque i Maya e gli Inca come fruitori di conoscenze provenienti da spazi cosmici. Ma non tutto. Landsburg colloca i primi arrivi alieni sulla Terra ancora più indietro nel tempo. Nel XIX secolo, lo scienziato inglese Calvin sostenne che la vita sulla Terra non era un prodotto casuale (nato dalla casuale aggregazione di elementi che hanno formato la prima cellula) o del tutto “autoctono”. Al contrario, Calvin riteneva che la vita sulla Terra provenisse da una “spora” giunta sulla Terra per mezzo di un meteorite. Il grande chimico svedese Svante Arrhenius, poi, riteneva che l’arrivo di questo meteorite non fosse stato casuale, ma fosse un evento accaduto per precisa volontà di “qualcuno” che si trovava in un altro sistema solare. Insomma, la Terra, ancora priva di vita, sarebbe stata “fecondata” da forme di vita aliena. Per lungo tempo, queste teorie furono viste come mere speculazioni fantascientifiche. Di recente, però, grazie all’osservazione dell’infinitamente piccolo biologico, queste teorie hanno ritrovato parzialmente credito. Si è osservato, per esempio, che, nei processi cellulari, un elemento chimico fondamentale è il molibdeno. Tale minerale, però, è scarsamente presente sulla Terra, in quantità minore, per esempio, rispetto al nichel o al cromo, relativamente meno importanti nei processi vitali cellulari. Questo è un primo indizio importante. Lo studio dell’evoluzione umana, poi, ha aperto altre vie, che hanno fatto supporre, ai sostenitori della teoria dell’inseminazione, che i nostri “creatori” non si siano limitati a fecondare la Terra, ma che abbiano anche controllato e regolato l’evoluzione della vita con successive modificazioni genetiche od altre inseminazioni di forme di vita più evolute. Facciamo qualche esempio. Nel 1961, in Africa Orientale, fu scoperto un ominide, lo Zinjanthropus, che esami rivelarono da datarsi a due milioni di anni fa. Era privo di zanne, squame, artigli, speroni; era lento a muoversi e lento a salire sugli alberi e camminava quasi eretto. Il suo viso era a forma di vanga, con una fronte sfuggente ed una mascella adatta a sgranocchiare ossa; la scatola cranica era metà di quella dell’Homo Sapiens Sapiens. Appare strano a tutti gli antropologi che sia sopravvissuto. Il successivo stadio dell’evoluzione umana è rappresentato dal cosiddetto Uomo di Pechino, che visse sulla Terra circa un milione di anni fa, esattamente ad un milione di anni di distanza dallo Zinjanthropus. La scatola cranica dell’Uomo di Pechino è leggermente più capace di quella del suo progenitore, cosa che, probabilmente, gli ha permesso di acquisire le conoscenze fondamentali per poter accendere il fuoco ed imparare come mantenerlo vivo. Ora, è lecito pensare che, se c’è voluto un milione di anni per scoprire il fuoco, per raggiungere le conoscenze attuali ce ne sarebbero voluti come minimo miliardi. Eppure, incredibilmente, poche centinaia di migliaia di anni dopo appare sulla Terra l’Uomo di Neanderthal. Questo antico progenitore dell’uomo ha un aspetto completamente differente dai suoi antenati: se vivesse ai giorni nostri, sostengono gli studiosi, ben pochi, incontrandolo in strada, si girerebbero a guardarlo. Il Neanderthal conosce il fuoco, naturalmente, spela gli animali, fabbrica piccoli utensili, anche in legno, vive in comunità, seppellisce i propri morti, cura gli ammalati. Ed ha una scatola cranica una volta e mezzo quella di Zinjanthropus e dell’Uomo di Pechino e ben duecento centimetri cubici più ampia della nostra. Inspiegabilmente, 35.000 anni fa, il Neanderthal scompare nel nulla. Non si sa bene quale fine abbia fatto: forse si è semplicemente estinto. Al suo posto, altrettanto improvvisamente, compare l’Uomo di Cro-Magnon o Homo Sapiens, il nostro antenato più diretto: era alto fino ad un metro e ottantacinque, era molto abile manualmente (era in grado di costruire armi, come delle specie di antiche fionde, e moltissimi utensili, anche piuttosto complessi), praticava l’allevamento e l’agricoltura ed aveva senso artistico (come dimostrano i dipinti di Lescaux ed Altamira); il suo cervello era più voluminoso del nostro anche di trecento centimetri cubici. 
E’ opinione di molti scienziati che un’evoluzione tanto rapida sia cosa incredibile, sia a livello fisico (il piede dell’Uomo di Neanderthal, dicono gli esperti, non può essere derivato da quello dell’Uomo di Pechino in così breve tempo) che mentale. Insomma, la rapidità vertiginosa dell’evoluzione umana, considerando i parametri riguardanti gli altri esseri viventi, se non fosse provata da reperti fossili sarebbe da considerarsi impossibile. Eppure è avvenuta. 
Visti questi fatti, la teoria di Calvin ed Arrhenius non sembra così campata per aria: anticamente, almeno tre, quattro miliardi di anni fa, qualcuno da un altro pianeta fecondò la Terra con il proprio codice genetico, dando origine a tutta la vita presente su questo pianeta. In seguito, questi misteriosi “genitori” vennero sul nostro pianeta e guidarono, mediante modificazioni genetiche, innesti, incroci, la nostra evoluzione, fino a dare origine all’uomo come lo conosciamo. Creato un uomo dalle potenzialità e capacità sufficienti a dominare la Terra, i genitori spaziali avrebbero condotto successive visite, dando origine alle civiltà precolombiane e a quella egizia. 

Le nostre origini, insomma, dalla nascita della primigenia cellula ai tempi moderni, sarebbero il frutto del lavoro oscuro di esseri provenienti dallo spazio, esseri che ci hanno dato la vita, l’intelligenza ed i mezzi per imporci su tutte le altre specie viventi. E la Lastra di Palenque ne potrebbe essere la prova: forse l’uomo viene dalle stelle.

BIBLIOGRAFIA

· Alla scoperta di antichi misteri, di Alan e Sally Landsburg, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1974.
· Nella Storia, di Carlo Cartiglia, Torino, Loescher Editore, 1997, vol. 1, Dal XIV secolo al 1650, pagg.123-125.

WEBGRAFIA

· www.edicolaweb.net/edic064s.htm , contenete l’articolo Palenque: l’ultimo steccato, di Mauro Paoletti. 
· www.edicolaweb.net/nonsoloufo/um_fot07.htm
· www.edicolaweb.net/pacal01g.htm
· http://amolt.interfree.it/Messico/arte_prec02_palenque.htm
· www.mexicoart.it/Ita/PacalLap.htm
· www.ilpaesedeibambinichesorridono.it/re_bambino_dei_maya.htm
· www.the1phoenix.net/x-files/archeosp.htm