Naturalmente
l'etica riposava sulla
più assoluta stabilità
sociale. Ogni deviazione
era punita, ogni merito
premiato. La figura del
ribelle era
semplicemente
inconcepibile. Società
guerriera, che
s'affaccia alla storia
con la scomoda eredità
del sacrificio umano,
"inventa", per
mitigarla, la figura del
gladiatore. Il
prigioniero di guerra
che avesse dimostrato la
propria forza guadagnava
la libertà. È un po'
l'anticipazione del
"giudizio di Dio"
medioevale e barbarico,
ma anche un compromesso
fra i giochi dell'Antica
Grecia, aperti solo agli
uomini liberi e lo
spettacolo circense che
farà impazzire la plebe
romana. Effettivamente
tutta la civiltà etrusca
può identificarsi come
un gigantesco sforzo per
adattare i modi e le
virtù guerriere alla
realtà della vita
urbana. In questo
periodo ogni città è
anche uno stato e
nonostante le numerose
leghe, tra cui la famosa
"dodecapoli" di cui gli
archeologi non son
riusciti a realizzare
l'esatta composizione,
si tratta sempre di
stati indipendenti e
spesso in lotta fra
loro: qualsiasi
autonomia dei territori
circostanti, borghi,
villaggi, era
cancellata, anche con la
forza se necessario.
L'abbondanza di
documentazione relativa
alla "polis" di
Tarquinia consente di
tracciare per questa
città un'ipotesi di
cursus honorum politico.
La carica più bassa era
quella di "marunuch" che
ha lasciato una traccia
nel "munus" umbro. Si
tratta d'una
magistratura collegiale
con un'ampia gamma di
competenze. Il termine
quando compare al
singolare, è sempre
specificato da
un'attribuzione, che ne
spiega il tipo di
responsabilità in ambito
edilizio o religioso; la
sacralità degli spazi
pubblici determinava,
infatti, un vero e
proprio intreccio di
responsabilità. Derivano
da questa figura i "quaestor"
e gli "aedilis" romani.
Una carica superiore è
quella del "cepen"
sacerdote. Poi c'è il "purth"
carica ampiamente
documentata a Tarquinia,
ma presente anche a
Volsini ed a Chiusi,
senza dubbio indicante
una posizione abbastanza
elevata. Qualcuno fa
derivare da questa
carica anche il nome
proprio di Porsenna. Lo
stesso dicasi di "macstrevc"
che ha una trasparente
connessione col nome
etrusco di re Servo
Tullio: Mastarna, ma si
ricollega anche con la
successiva carica romana
di "magister populi". La
magistratura somma
infine è collegata col
termine del tutto oscuro
di "zilath", una specie
di pretore. Normalmente
tutte queste cariche
erano elettive, ma
esisteva il rischio
reale di un colpo di
stato, che imponesse un
tiranno. È l'incubo di
tutte le città stato del
Mediterraneo.
Particolarmente
indicativo è il fatto
che dal termine di
Tiranno=signore
assoluto, deriva il nome
da Turan, associata alla
figura d'Afrodite, dea
dell'amore, ma forse non
carnale. S'è visto che
in Occidente la
prostituzione sacra è
appannaggio di Uni.
Turan è più simile ad
una dea dell'oltretomba,
la guida dell'anima in
un'altra dimensione e
come tale è spesso
rappresentata con le
ali. A Marsiliana
d'Albenga è stata
trovata una statuetta un
tempo dorata
rappresentante una donna
nuda, che evoca
tipologicamente la dea
delle Acque di Mari o
più comunemente
l'Afrodite Anadiomene,
sorgente dal caos ed
orientata verso il
cielo, con tirannica
determinazione per chi
le si affida,
indifferente alla sorte
degli altri. E col
termine di tiranno ecco
evocato un famoso
spettro etrusco:
Tarquinio il Superbo,
mago e negromante, che
la città indignata ebbe
il coraggio di cacciare
solo dopo lo stupro
della virtuosa Lucrezia,
suicida per la vergogna.
È andata davvero così?
Mariangela Cerrino (Rasna,
la saga del popolo
etrusco. - Milano:
Longanesi, 1998) nella
sua ricostruzione
romanzesca, ma attenta
alle fonti storiche,
suggerisce il contrario.
Un trabocchetto,
un'astuta trama creata
ad arte per eliminare
una figura scomoda.
Anche volendo prestar
fede alla tradizione
pare un po' incredibile
questa guerra, scoppiata
per vendicar l'onore
d'una donna, quasi
modellata sul mito di
Troia... in ogni caso le
fonti annalistiche
concordano nel far
coincidere la cacciata
di Tarquinio il Superbo
con l'ascesa di Roma e
l'inevitabile tramonto
della potenza etrusca,
tanto che, nel tempo, i
contorni della civiltà
toscana si fan sempre
più diafani e pare che
l'unico suo merito sia
stato quello di
anticipare un poco le
glorie della grande
repubblica. In realtà
l'antagonista
dell'Etruria non è Roma,
ma Marsiglia, anzi
Massalia come si diceva
allora. Con la sua
fondazione ad opera dei
Focesi, nel 600 a. C.
cui seguì quella di
Velia in Lucania, cessa
per sempre la
tassalocrazia
etrusco-cartagginese,
consacrata da trecento
anni di imprese comuni.
Marsiglia introduce in
Gallia i prodotti
etruschi ed il tesoro di
Vix ne è pieno, ma non
sempre sono frutto di
regolari transazioni
economiche. I Focesi
tempestano i porti
toscani e punici di
brevi ed efficaci azioni
di pirateria, rubando
tutto ciò che riescono a
trovare. Si mette a
punto un sistema di
porti fortificati
chiamati "cintura
d'Ercole" dal nome
dell'eroe ormai
naturalizzato, e
s'intrecciano relazioni
complesse con la Magna
Grecia e Cartagine, ma
non basta. Gli Etruschi
ripiegano
sull'entroterra, dove
fondano nuove città,
come Melpum, forse
l'antica Milano,
estendendo la propria
supremazia alla Val
Padana, in Corsica e nel
sud, dove fondano Capua.
In principio anche Roma
fa parte di questo
programma di "ritorno
alla terra" o
colonizzazione
intensiva: la riva
destra del Tevere, ricca
di saline, è dominio
etrusco da sempre (tra
le etimologie proposte
Tevere potrebbe
significare "tuscus
amnis = fiume etrusco")
e dalla tribù Romilia,
etrusca, viene il nome
Romolo, come pure il
culto del lupo,
sacro a Marte. Con
Tarquinio Prisco, figlio
di un ricco commerciante
di Corinto e sposo di
una nobildonna versata
nelle arti sacre, la
civiltà etrusca penetra
nella città più
importante della lega
latina, fatta ancora di
capanne dai tetti di
stuoie. Il termine
stesso di città è
improprio: sette colli
si contendono il
privilegio d'essere
l'acropoli sacra, mentre
la vita vera, sui porti
del Tevere, è
continuamente minacciata
dalle rovinose piene del
fiume, la foce è
infestata da paludi. Per
trasformarla in una vera
città non bastano le
arti sacre! La crescita
civica di Roma non è ne'
rapida ne' uniformemente
accetta, ma procede
quasi inarrestabile.
S'importa mano d'opera
etrusca e s'impiega un
piccolo esercito di
forzati per costruire
templi, mura, case.
S'introduce la
scrittura, con un
alfabeto ricavato dalle
maiuscole greche e la
simbologia regale. D'ora
in poi il sovrano
nell'esercizio delle sue
funzioni incarna e
rappresenta al popolo
questa divinità: siede
su un trono d'avorio,
veste una toga di
porpora "picta" cioè
ricamata a stelle d'oro,
secondo la sapiente arte
tessile domestica,
mentre oro massiccio è
quello della corona, lo
scettro, sempre in
avorio, è sormontato da
un'aquila, che poi
diventerà anche il
simbolo delle legioni.
Il suo "imperium" è
rappresentato dai 12
littori armati d'ascia,
perché il governo regale
sospende qualsiasi forma
di vendetta privata. Il
discusso concetto di re
sacro, che metterà tanto
in crisi i repubblicani,
è da ricollegarsi alla
figura di Giove-Tinia,
cui il re era
profondamente devoto,
tanto che in una guerra
contro i Sabini fece
voto d'erigergli un
tempio sul Campidoglio,
ma morì prima di poterlo
realizzare. Gran parte
della sacralità
apparentemente richiesta
per se' era per
Tarquinio un implicito
omaggio al dio di cui si
riteneva portavoce.
Quando venne a cadere
questo legame i simboli
regali parvero ai romani
un lusso personale
inaccettabile.
D'altronde la città
cresceva ed i suoi
obbiettivi erano sempre
più lontani dalle
motivazioni religiose.
Il successore di
Tarquinio, Servio
Tullio, Mastarna in
etrusco, fa costruire
una cerchia di mura: si
tratta di un "agger" di
terra alto più di sei
metri e circondato d'un
fossato. A lui sono
attribuiti i principali
ordinamenti civici e
religiosi della città,
l'organizzazione della
cavalleria e della
fanteria pesante e gran
parte del calendario
luni-solare, che la
tradizione voleva
introdotto dal mitico re
Numa. Etrusco è il mese
d'aprile, le Idi, i
Volturnalia, celebrati
il 27 agosto in onore
dell'omonimo dio-fiume
campano. Per sua
iniziativa è edificata
tutta l'area messa in
luce alla vigilia
dell'ultima guerra dagli
scavi presso la chiesa
di sant' Omobono, dove
il re aveva fatto
costruire i templi
gemelli di Mater Matuta
più nota come Aurora e
la dea Fortuna.
Finalmente Tarquinio il
Superbo, nipote di
Tarquinio Prisco, decise
di terminare l'opera del
nonno, realizzando il
tempio capitolino. Si
tratta d'un'opera di
gran significato
politico, perché
sostituisce una triade
etrusca alle tre
divinità cittadine: lo
stesso Giove, infatti,
era fino allora
affiancato, con eguale
dignità, da Marte e da
Quirino, che tra l'altro
aveva assorbito la
figura di Romolo. Ora
tra Giove e gli altri si
stabilirà invece una
distanza anche fisica:
il tempio di Marte sarà
addirittura posto fuori
delle mura, perché come
le "piante infelices" la
sua funzione difensiva e
protettiva si esplica
meglio in faccia ai
nemici, oltre la città.
Il Campidoglio invece
rappresenta il luogo
ideale per fondare una
cittadella sacra e
riportare le opposte
fazioni ad un'idea
d'unità, la
realizzazione fisica del
progetto tuttavia non
era un'impresa da poco,
il terreno roccioso e
scosceso rappresentava
una sfida alle tecniche
edilizie degli stessi
etruschi. Si narra che
solo per il livellamento
del suolo e la
costruzione della
piattaforma artificiale
furono esauriti tutti i
fondi destinati in
origine all'intera
costruzione. Ancora una
volta si ricorse alla
mano d'opera toscana,
imponendo i lavori più
pesanti ad una plebe già
fortemente indisposta
dalla necessità di
prestar servizio
militare. Le fondamenta
scavate nel tufo e nella
creta del colle
resistettero a numerosi
incendi e furono la base
delle costruzioni
successive, sempre più
ardite. Chiuso a nord ed
orientato a mezzogiorno,
secondo l'uso etrusco,
s'ergeva ancora su una
struttura lignea, come i
contemporanei templi di
Pirgi e di Tarquinia ed
ostentava un portico a
colonne con frontone
ornato di statue di
terracotta dipinta. Il
timpano era ancora
liscio in età arcaica,
le statue erano situate
più in alto ed i tratti
dei visi erano
fortemente marcati, per
essere visibili dalla
strada, alla distanza di
cinque o sei metri: gran
parte della fissità del
famoso sorriso ieratico
etrusco corrisponde in
realtà a questa
necessità tecnica.
Purtroppo il tempio
capitolino andò
distrutto, ma possiamo
farcene un'idea
confrontandolo con i
reperti coevi d'altre
città. Per esempio la
dea Latona, col
figlioletto in braccio,
proveniente dal tempio
d'Apollo di Veio. Quello
romano, dedicato al re
degli dei, doveva avere
un aspetto ancora più
imponente e recava sul
frontone un'enorme
quadriga, sempre in
terracotta dipinta, che
nel III sec, a C. fu
sostituita da un modello
in bronzo. I cavalli
bianchi erano una
prerogativa di Giove, re
del cielo soprattutto
diurno. Sotto al tempio
capitolino tuttavia la
città non cresceva
secondo lo schema
ordinato previsto dagli
auguri etruschi. I
latini erano pastori
ancora seminomadi, dato
che le piene del Tevere
e l'insalubrità delle
paludi rendeva spesso
necessari improvvisi e
rapidi spostamenti.
Passato il primo momento
di stupore dovette farsi
strada un gran
malcontento ed una
profonda nostalgia per
le libertà tribali che
la Lega Latina pareva
garantire, mentre i
sovrani etruschi
ignoravano addirittura.
Probabilmente il tenore
di vita della famiglia
reale, che vestiva di
porpora, parlava e
scriveva in una lingua
sconosciuta, si cibava
di spezie orientali,
passeggiava in cocchi
guarniti d'avorio e
d'oro, dovette parere
offensivo ai più. L'odio
che il Superbo attirò su
di se', forse anche per
la dispendiosa
costruzione del tempio,
fu tale da costargli il
potere. Non solo dunque
non inaugurò la sua
opera, ma non poté
neppure dedicare il
tempio. Quest'onore
toccò invece al console
Orazio, il 13 settembre
509 a.C. Cacciato
Tarquinio il Superbo
però Roma non visse
felice e contenta, come
pure certi annalisti
cercarono di raccontare.
Ci fu la lunga
opposizione a Porsenna,
re di Chiusi, pure
etrusco, che non riuscì
a governare Roma, ma
tenne a lungo in scacco
la popolazione, le
incursioni del la
pirateria focese, che
infestava le coste,
tanto che nel 509 a. C.,
se prestiamo fede a
Polibio (III, 24, 7), fu
necessario accettare un
patto con Cartagine che
assomigliava quasi ad un
atto di vassallaggio, ma
soprattutto la lunga e
costosa guerra con Veio
per lo sfruttamento
delle saline, che
impegnò in particolare
la famiglia dei Fabi,
proprietari di molte
terre a nord di Roma. Il
conflitto durò dieci
anni, dal 406 al 396 a.
C. ed è documentata da
fonti romane ed
etrusche. Siamo ormai in
epoca storica.
Le immagini inserite
nell'articolo provengono
dalla Mostra sugli
Etruschi di Palazzo
Grassi
www.palazzograssi.it
Visita il sito personale
di
Mary Falco
|