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Gli Etruschi
Romolo A. Staccioli

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Gladiatori e tiranni alle origini di Roma Antica
a cura di Mary Falco

Naturalmente l'etica riposava sulla più assoluta stabilità sociale. Ogni deviazione era punita, ogni merito premiato. La figura del ribelle era semplicemente inconcepibile. Società guerriera, che s'affaccia alla storia con la scomoda eredità del sacrificio umano, "inventa", per mitigarla, la figura del gladiatore. Il prigioniero di guerra che avesse dimostrato la propria forza guadagnava la libertà. È un po' l'anticipazione del "giudizio di Dio" medioevale e barbarico, ma anche un compromesso fra i giochi dell'Antica Grecia, aperti solo agli uomini liberi e lo spettacolo circense che farà impazzire la plebe romana. Effettivamente tutta la civiltà etrusca può identificarsi come un gigantesco sforzo per adattare i modi e le virtù guerriere alla realtà della vita urbana. In questo periodo ogni città è anche uno stato e nonostante le numerose leghe, tra cui la famosa "dodecapoli" di cui gli archeologi non son riusciti a realizzare l'esatta composizione, si tratta sempre di stati indipendenti e spesso in lotta fra loro: qualsiasi autonomia dei territori circostanti, borghi, villaggi, era cancellata, anche con la forza se necessario. L'abbondanza di documentazione relativa alla "polis" di Tarquinia consente di tracciare per questa città un'ipotesi di cursus honorum politico. La carica più bassa era quella di "marunuch" che ha lasciato una traccia nel "munus" umbro. Si tratta d'una magistratura collegiale con un'ampia gamma di competenze. Il termine quando compare al singolare, è sempre specificato da un'attribuzione, che ne spiega il tipo di responsabilità in ambito edilizio o religioso; la sacralità degli spazi pubblici determinava, infatti, un vero e proprio intreccio di responsabilità. Derivano da questa figura i "quaestor" e gli "aedilis" romani. Una carica superiore è quella del "cepen" sacerdote. Poi c'è il "purth" carica ampiamente documentata a Tarquinia, ma presente anche a Volsini ed a Chiusi, senza dubbio indicante una posizione abbastanza elevata. Qualcuno fa derivare da questa carica anche il nome proprio di Porsenna. Lo stesso dicasi di "macstrevc" che ha una trasparente connessione col nome etrusco di re Servo Tullio: Mastarna, ma si ricollega anche con la successiva carica romana di "magister populi". La magistratura somma infine è collegata col termine del tutto oscuro di "zilath", una specie di pretore. Normalmente tutte queste cariche erano elettive, ma esisteva il rischio reale di un colpo di stato, che imponesse un tiranno. È l'incubo di tutte le città stato del Mediterraneo. Particolarmente indicativo è il fatto che dal termine di Tiranno=signore assoluto, deriva il nome da Turan, associata alla figura d'Afrodite, dea dell'amore, ma forse non carnale. S'è visto che in Occidente la prostituzione sacra è appannaggio di Uni. Turan è più simile ad una dea dell'oltretomba, la guida dell'anima in un'altra dimensione e come tale è spesso rappresentata con le ali. A Marsiliana d'Albenga è stata trovata una statuetta un tempo dorata rappresentante una donna nuda, che evoca tipologicamente la dea delle Acque di Mari o più comunemente l'Afrodite Anadiomene, sorgente dal caos ed orientata verso il cielo, con tirannica determinazione per chi le si affida, indifferente alla sorte degli altri. E col termine di tiranno ecco evocato un famoso spettro etrusco: Tarquinio il Superbo, mago e negromante, che la città indignata ebbe il coraggio di cacciare solo dopo lo stupro della virtuosa Lucrezia, suicida per la vergogna. È andata davvero così? Mariangela Cerrino (Rasna, la saga del popolo etrusco. - Milano: Longanesi, 1998) nella sua ricostruzione romanzesca, ma attenta alle fonti storiche, suggerisce il contrario. Un trabocchetto, un'astuta trama creata ad arte per eliminare una figura scomoda. Anche volendo prestar fede alla tradizione pare un po' incredibile questa guerra, scoppiata per vendicar l'onore d'una donna, quasi modellata sul mito di Troia... in ogni caso le fonti annalistiche concordano nel far coincidere la cacciata di Tarquinio il Superbo con l'ascesa di Roma e l'inevitabile tramonto della potenza etrusca, tanto che, nel tempo, i contorni della civiltà toscana si fan sempre più diafani e pare che l'unico suo merito sia stato quello di anticipare un poco le glorie della grande repubblica. In realtà l'antagonista dell'Etruria non è Roma, ma Marsiglia, anzi Massalia come si diceva allora. Con la sua fondazione ad opera dei Focesi, nel 600 a. C. cui seguì quella di Velia in Lucania, cessa per sempre la tassalocrazia etrusco-cartagginese, consacrata da trecento anni di imprese comuni. Marsiglia introduce in Gallia i prodotti etruschi ed il tesoro di Vix ne è pieno, ma non sempre sono frutto di regolari transazioni economiche. I Focesi tempestano i porti toscani e punici di brevi ed efficaci azioni di pirateria, rubando tutto ciò che riescono a trovare. Si mette a punto un sistema di porti fortificati chiamati "cintura d'Ercole" dal nome dell'eroe ormai naturalizzato, e s'intrecciano relazioni complesse con la Magna Grecia e Cartagine, ma non basta. Gli Etruschi ripiegano sull'entroterra, dove fondano nuove città, come Melpum, forse l'antica Milano, estendendo la propria supremazia alla Val Padana, in Corsica e nel sud, dove fondano Capua. In principio anche Roma fa parte di questo programma di "ritorno alla terra" o colonizzazione intensiva: la riva destra del Tevere, ricca di saline, è dominio etrusco da sempre (tra le etimologie proposte Tevere potrebbe significare "tuscus amnis = fiume etrusco") e dalla tribù Romilia, etrusca, viene il nome Romolo, come pure il culto del lupo,
sacro a Marte. Con Tarquinio Prisco, figlio di un ricco commerciante di Corinto e sposo di una nobildonna versata nelle arti sacre, la civiltà etrusca penetra nella città più importante della lega latina, fatta ancora di capanne dai tetti di stuoie. Il termine stesso di città è improprio: sette colli si contendono il privilegio d'essere l'acropoli sacra, mentre la vita vera, sui porti del Tevere, è continuamente minacciata dalle rovinose piene del fiume, la foce è infestata da paludi. Per trasformarla in una vera città non bastano le arti sacre! La crescita civica di Roma non è ne' rapida ne' uniformemente accetta, ma procede quasi inarrestabile. S'importa mano d'opera etrusca e s'impiega un piccolo esercito di forzati per costruire templi, mura, case. S'introduce la scrittura, con un alfabeto ricavato dalle maiuscole greche e la simbologia regale. D'ora in poi il sovrano nell'esercizio delle sue funzioni incarna e rappresenta al popolo questa divinità: siede su un trono d'avorio, veste una toga di porpora "picta" cioè ricamata a stelle d'oro, secondo la sapiente arte tessile domestica, mentre oro massiccio è quello della corona, lo scettro, sempre in avorio, è sormontato da un'aquila, che poi diventerà anche il simbolo delle legioni. Il suo "imperium" è rappresentato dai 12 littori armati d'ascia, perché il governo regale sospende qualsiasi forma di vendetta privata. Il discusso concetto di re sacro, che metterà tanto in crisi i repubblicani, è da ricollegarsi alla figura di Giove-Tinia, cui il re era profondamente devoto, tanto che in una guerra contro i Sabini fece voto d'erigergli un tempio sul Campidoglio, ma morì prima di poterlo realizzare. Gran parte della sacralità apparentemente richiesta per se' era per Tarquinio un implicito omaggio al dio di cui si riteneva portavoce. Quando venne a cadere questo legame i simboli regali parvero ai romani un lusso personale inaccettabile. D'altronde la città cresceva ed i suoi obbiettivi erano sempre più lontani dalle motivazioni religiose. Il successore di Tarquinio, Servio Tullio, Mastarna in etrusco, fa costruire una cerchia di mura: si tratta di un "agger" di terra alto più di sei metri e circondato d'un fossato. A lui sono attribuiti i principali ordinamenti civici e religiosi della città, l'organizzazione della cavalleria e della fanteria pesante e gran parte del calendario luni-solare, che la tradizione voleva introdotto dal mitico re Numa. Etrusco è il mese d'aprile, le Idi, i Volturnalia, celebrati il 27 agosto in onore dell'omonimo dio-fiume campano. Per sua iniziativa è edificata tutta l'area messa in luce alla vigilia dell'ultima guerra dagli scavi presso la chiesa di sant' Omobono, dove il re aveva fatto costruire i templi gemelli di Mater Matuta più nota come Aurora e la dea Fortuna. Finalmente Tarquinio il Superbo, nipote di Tarquinio Prisco, decise di terminare l'opera del nonno, realizzando il tempio capitolino. Si tratta d'un'opera di gran significato politico, perché sostituisce una triade etrusca alle tre divinità cittadine: lo stesso Giove, infatti, era fino allora affiancato, con eguale dignità, da Marte e da Quirino, che tra l'altro aveva assorbito la figura di Romolo. Ora tra Giove e gli altri si stabilirà invece una distanza anche fisica: il tempio di Marte sarà addirittura posto fuori delle mura, perché come le "piante infelices" la sua funzione difensiva e protettiva si esplica meglio in faccia ai nemici, oltre la città. Il Campidoglio invece rappresenta il luogo ideale per fondare una cittadella sacra e riportare le opposte fazioni ad un'idea d'unità, la realizzazione fisica del progetto tuttavia non era un'impresa da poco, il terreno roccioso e scosceso rappresentava una sfida alle tecniche edilizie degli stessi etruschi. Si narra che solo per il livellamento del suolo e la costruzione della piattaforma artificiale furono esauriti tutti i fondi destinati in origine all'intera costruzione. Ancora una volta si ricorse alla mano d'opera toscana, imponendo i lavori più pesanti ad una plebe già fortemente indisposta dalla necessità di prestar servizio militare. Le fondamenta scavate nel tufo e nella creta del colle resistettero a numerosi incendi e furono la base delle costruzioni successive, sempre più ardite. Chiuso a nord ed orientato a mezzogiorno, secondo l'uso etrusco, s'ergeva ancora su una struttura lignea, come i contemporanei templi di Pirgi e di Tarquinia ed ostentava un portico a colonne con frontone ornato di statue di terracotta dipinta. Il timpano era ancora liscio in età arcaica, le statue erano situate più in alto ed i tratti dei visi erano fortemente marcati, per essere visibili dalla strada, alla distanza di cinque o sei metri: gran parte della fissità del famoso sorriso ieratico etrusco corrisponde in realtà a questa necessità tecnica. Purtroppo il tempio capitolino andò distrutto, ma possiamo farcene un'idea confrontandolo con i reperti coevi d'altre città. Per esempio la dea Latona, col figlioletto in braccio, proveniente dal tempio d'Apollo di Veio. Quello romano, dedicato al re degli dei, doveva avere un aspetto ancora più imponente e recava sul frontone un'enorme quadriga, sempre in terracotta dipinta, che nel III sec, a C. fu sostituita da un modello in bronzo. I cavalli bianchi erano una prerogativa di Giove, re del cielo soprattutto diurno. Sotto al tempio capitolino tuttavia la città non cresceva secondo lo schema ordinato previsto dagli auguri etruschi. I latini erano pastori ancora seminomadi, dato che le piene del Tevere e l'insalubrità delle paludi rendeva spesso necessari improvvisi e rapidi spostamenti. Passato il primo momento di stupore dovette farsi strada un gran malcontento ed una profonda nostalgia per le libertà tribali che la Lega Latina pareva garantire, mentre i sovrani etruschi ignoravano addirittura. Probabilmente il tenore di vita della famiglia reale, che vestiva di porpora, parlava e scriveva in una lingua sconosciuta, si cibava di spezie orientali, passeggiava in cocchi guarniti d'avorio e d'oro, dovette parere offensivo ai più. L'odio che il Superbo attirò su di se', forse anche per la dispendiosa costruzione del tempio, fu tale da costargli il potere. Non solo dunque non inaugurò la sua opera, ma non poté neppure dedicare il tempio. Quest'onore toccò invece al console Orazio, il 13 settembre 509 a.C. Cacciato Tarquinio il Superbo però Roma non visse felice e contenta, come pure certi annalisti cercarono di raccontare. Ci fu la lunga opposizione a Porsenna, re di Chiusi, pure etrusco, che non riuscì a governare Roma, ma tenne a lungo in scacco la popolazione, le incursioni del la pirateria focese, che infestava le coste, tanto che nel 509 a. C., se prestiamo fede a Polibio (III, 24, 7), fu necessario accettare un patto con Cartagine che assomigliava quasi ad un atto di vassallaggio, ma soprattutto la lunga e costosa guerra con Veio per lo sfruttamento delle saline, che impegnò in particolare la famiglia dei Fabi, proprietari di molte terre a nord di Roma. Il conflitto durò dieci anni, dal 406 al 396 a. C. ed è documentata da fonti romane ed etrusche. Siamo ormai in epoca storica.
    
Le immagini inserite nell'articolo provengono dalla Mostra sugli Etruschi di Palazzo Grassi www.palazzograssi.it

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