Ancora una volta, come
ogni anno, ci stiamo
apprestando ad esser
bombardati da
pubblicità, magazine,
network che parlano di
Halloween, il
“carnevale” novembrino
vera e propria festa del
consumistico mondo
occidentale. Per molti
la ricorrenza è estranea
alla nostra cultura
italiana, un chiaro
esempio dell’effetto
della globalizzazione e
dell’assorbimento di usi
e costumi del mondo
anglosassone. In realtà,
celate da maschere e
vetrine scintillanti
ecco trasparire antichi
ricordi di tradizioni
mai del tutto scomparse
e ancora insite nel
folklore popolare che
contraddistingue la
nostra nazione. Sarà
così seguendo gli indizi
nascosti nelle pieghe
del tempo che arriveremo
ad un culto molto
antico, il culto della
Dea Madre, regina di
questa mistica notte ove
ancora oggi il velo
della reminescenza è
così leggero da
permetterci di guardar
attraverso. Secondo il
Dizionario McBeain di
Lingua Gaelica Samhain
(pronunciato “sow-in”),
forse la più importante
tra le festività
celtiche, deriverebbe da
“samhuinn” e
significherebbe
“summer’s End”, la fine
dell’estate e l’inizio
della stagione
invernale. In realtà i
festeggiamenti non
duravano una sola
giornata ma iniziavano
una settimana prima e si
concludevano una
settimana dopo, così è
molto più probabile che
il giorno più importante
dei festeggiamenti non
fosse il primo del mese
di Novembre, bensì l’11,
data coincidente con
quella che oggi viene
definita estate di San
Martino.
Successivamente, nei
paesi di origine
anglosassone, Samhain fu
trasformata in All
Hallow’Eve, ove “Eve”
sta per “vigilia” o
ancora Halloween. Questa
data coincideva con
l’inizio dell’anno
celtico, il momento in
cui la natura inizia il
suo riposo e il
primitivo, spaurito
dalla morte della
propria “mater”, già
preparava la sua
rinascita. Da qui il
collegamento di Samhain
come festa dei morti, ma
in realtà essa non è una
festività legata ai
defunti, esattamente il
contrario, è legata alla
vita, alla grande dea
che muore per poter
rinascere. Ai primordi
infatti la divinità è
immaginata come la
sovrana dei boschi e
della natura selvaggia,
essa da sostentamento
agli uomini ma ne può
causare anche la morte,
successivamente il
passaggio dal nomadismo
all’agricoltura impone
al selvaggio un più
attento esame delle
stagioni e dei cicli
naturali, egli si
accorge che la terra non
è sempre fertile, la
dea, resasi immanente
nei campi, nelle piante
di grano e di orzo muore
per poter rinascere
nuovamente e così
assicurare, con i suoi
eterni cicli, la novella
vita. Il concetto di
morte e resurrezione ha
così da sempre permeato
le credenze e i miti
degli uomini, nel mondo
greco ad esempio essa è
ben descritta dalla
storia di Demetra e
Persefone, la leggenda
narra che un giorno la
bella Presefone, figlia
di Demetra, mentre
raccoglieva dei fiori
con delle amiche, si
allontanò nel bosco e
così Ade, la divinità
dell’oltretomba, da
tempo perdutamente
innamorato della
fanciulla, decise di
rapirla con il
beneplacito di Zeus. La
Dea Madre accortasi
della scomparsa della
figlia iniziò a cercarla
ma, vedendo vani i suoi
tentativi, decise che
fin quando non le
sarebbe stata restituita
la terra non avrebbe
prodotto più i suoi
frutti. Zeus ordinò così
ad Ade di lasciar libera
la fanciulla ma il dio,
con un sotterfugio,
costrinse la stessa a
ritornare ogni sei mesi
nel suo regno. Demetra
allora infuriata decise
che nel periodo in cui
Persefone fosse stata
nel regno dei morti, sul
mondo sarebbe calato
l’inverno e la terra non
avrebbe prodotto i suoi
magnifici frutti, una
metaforica morte in
attesa del risveglio. E’
in questa ottica che la
festa di Halloween
assume un nuovo
significato, esso
diventa il giorno in cui
il velo che separa il
mondo dei vivi da quello
del soprannaturale si fa
molto sottile, tanto da
poter facilmente
trapassarlo, nasce così
l’idea che le anime dei
morti proprio in questo
giorno riescon più
facilmente a raggiungere
e far visita ai loro
cari ancora in vita. Da
questa credenza nasce
l’usanza di lasciare
frutti o latte sugli
usci delle porte, in
modo che gli spiriti,
durante le loro visite
potessero ristorarsi o
ancora accendere torce e
fiaccole per segnalare
il cammino e agevolare
loro il ritorno. Con
l’avvento del
Cristianesimo, la Chiesa
cercò di appropriarsi
della festività troppo
radicata nella cultura
popolare per esser
cancellata e così il 1°
Novembre diventava la
festa di Ognissanti, le
figure fatate e gli
spiriti della tradizione
celtica, a loro volta
immagine di un oltremodo
di morte e
rigenerazione, furono
demonizzati, le stesse
donne il cui ruolo nei
rituali di fertilità era
fondamentale furono
trasformate in streghe e
i falò di “gioia”
tradotti in roghi. Anche
le lanterne e le luci
giuda subirono una ugual
sorte, quelle che
all’inizio avevano
proprio il compito di
indicare ai propri
defunti la “via di casa”
divennero “lanterne
scaccia streghe” con un
uso completamente
differente.
LA
ZUCCA COME SIMBOLO DELLA
DEA MADRE
La tradizione vuole
che solo verso il 1700
iniziò a sorgere
l’usanza di intagliare
strani e spaventosi
volti nelle rape e di
inserire nel loro
interno delle candele
illuminate proprio per
far allontanare gli
spiriti maligni, nel
1845 però, una
spaventosa carestia in
Irlanda obbligò
moltissime persone a
immigrare in America
portando con loro anche
queste tradizioni. La
difficoltà di reperire
rape nel nuovo
continente fece si che
il tubero fosse
sostituito dalle molto
più diffuse zucche
gialle che ancor oggi
sono uno dei simboli più
ricorrenti di Samhain.
Se così ci racconta la
storia non possiamo far
a meno di soffermarci
sulla scelta del
frutto-simbolo della
festa, trovando molte
altre antiche tradizioni
che riportano alla
zucca. Essa è infatti da
sempre legata a rituali
di morte e rigenerazione
che contraddistinguono
il culto della dea,
infatti il fiore,
chiamato giglio, era
legato di solito ai
morti, il suo colore
giallo pallido ricordava
appunto il colore delle
ossa dei defunti, mentre
il frutto, appunto la
zucca, era associato
alla procreazione e alla
fertilità. Se così
immaginiamo che la
lanterna di Halloween
abbia origini moderne
basta sfogliare il
Corpus Hippocraticum del
400-300 a.C. per leggere
che:
“…se la donna ha
la stanguria tagliare la
testa e il fondo di una
zucca, metterci sotto
del carbone, gettare sul
fuoco della mierra
triturata, la donna si
sieda sulla zucca e
faccia entrare quanto
più possibile i suoi
organi genitali,
affinché le parti
genitali ricevano più
vapore possibile…”
Ai nostri occhi la
descrizione sempre
perfettamente coincidere
con la lanterna
cacciastreghe simbolo
della festività. La
zucca è così lo
strumento per assicurare
la procreazione, essa è
il priapos primordiale,
l’elemento ingravidatore
che nasce dalla stessa
terra e assicura, nel
periodo più oscuro e
buio la vita. Del resto
la zucca era anche
associata al dio Priapo,
divinità di origine
greca poi
successivamente
“adottata” dai romani.
Il dio, spesso
rappresentato con un
volto umano e le
orecchie di una capra,
tiene in mano un bastone
usato per spaventare gli
uccelli, la falce per
potare gli alberi e
sulla testa foglie
d’alloro. Sua
caratteristica più
evidente è l’enorme o
addirittura il doppio
fallo, simbolo proprio
della sua natura
feconda, aspetto per il
quale era anche
rappresentato da un
pilastrino verticale con
sopra scolpita la sua
testa e il suo fallo
eretto, simbolo appunto
della fecondazione.
Ebbene il dio era anche
strettamente collegato
alla zucca come possiamo
leggere dai Carme
Priapei:
“…io sono invocato
come custode ligneio
delle zucche…”
E ancora il ricordo
della zucca come frutto
legato ai rituali di
fertilità lo ritroviamo
in molti autori latini
che la associano al
parto e alla gravidanza:
« …intortus cucumis
praegnansque cucurbita
serpit… »
o ancora in Propezio che
scrive:
« ...caerules cucumis
tumidoque cucurbita
ventre... »
Così la zucca è
simbolo fallico ma al
tempo stesso essa stessa
“madre”, portando nel
suo ventre fruttifero i
semi, come la donna e la
dea essa assicura la
vita per la sua specie e
il sostentamento per gli
uomini.
LA PROCESSIONE DEI
MORTI DAL MONDO CELTICO
ALLE TRADIZIONI ITALIANE
Altra interessante
tradizione è legata al
famoso Trick or Treak,
la mascherata di bambini
che attraversano le vie
della città cercando
dolciumi e regalini. In
realtà per scoprire cosa
si cela dietro questa
usanza dovremo
attraversare i sentieri
del folklore italiano
alla ricerca delle
“processioni dei morti”
fino ad imbatterci nel
mitico Artù, espressione
dell’Ankou bretone, ma
anche e soprattutto
della “morte birichina”
delle tradizioni
popolari italiane.
L'ANKOU E IL CULTO
DEI MORTI IN BRETAGNA
Dal XI secolo
moltissimi sono i
racconti popolari e i
testi letterari in
Europa che parlano
dell’apparizione
dell’”esercito furioso”,
nome con il quale è
conosciuto, nell’area
centro europea, una
strana processione di
misteriose creature
fantastiche, poi
evolutesi nel loro
aspetto, in streghe e
stregoni pronti al
viaggio verso il sabba.
Questa schiera di
esseri, composta
indifferentemente da
uomini e donne, spesso a
cavallo di animali in
qualche modo legati ai
culti totemici pagani,
come capre, cavalli o
strani rapaci, era di
solito guidata da un
essere mitico, una
antica divinità pagana
autoctona come ad
esempio Wotan o Odino
dell’area nordica o da
strane creature, spesso
dalle fattezze
femminili, che
trasportavano, non di
rado, un carro rituale.
Una interessante area da
esaminare, proprio
perché ancora oggi è
visibile nel folklore
locale lo strano
rapporto tra viventi e
defunti, è la Bretagna,
luogo ove alla religione
ufficiale si mescolano
vorticosamente antiche
tradizioni pagane mai
cancellate. Un esempio
ancora ben visibile
nelle leggende e nei
racconti popolari, è ad
esempio quello dell’Ankou.
Si tratta di una figura
locale raffigurata come
la “morte”, sotto forma
di scheletro con la
falce che però non è
semplice espressione
della stessa, in realtà
si tratta solo di un suo
messaggero, una strana
figura che giunge ad
avvisare le persone, e
spesso a consigliare di
portare subito a termine
faccende personali in
sospeso prima del loro
trapasso. Questo però
non è l’unico esempio,
altra interessante
informazione sul mondo
bretone dei trapassati
può esser desunta, poi,
dal racconto di Procopio
di Cesarea nella sua
Guerra Gotica. Parlando
della Brittia ci
racconta che “…giunto a
questo punto della
storia mi sembra
inevitabile raccontare
un fatto che ha
piuttosto attinenza con
la superstizione…”. Ecco
così che lo storico
narra delle strane
abitudini di alcuni
abitanti di borghi di
pescatori situati
dall’altra parte del
mare, in quell’area che
oggi è appunto nota come
la Bretagna. Alcuni di
questi individui avevano
un compito strano,
quello di traghettare le
anime dei morti nella
“…A tarda ora della
notte, infatti, essi
sentono battere alla
porta e odono una voce
soffocata che li chiama
all’opera. Senza
esitazione saltano giù
dal letto e si recano
sulla riva del
mare…sulla riva trovano
barche speciali, vuote.
Ma quando vi salgono
sopra le barche
affondano fin quasi al
pelo dell’acqua come se
fossero cariche…dopo
aver lasciato i
passeggeri ripartono con
le navi leggere…”. Se
questo racconto sembra
incredibile basta
giungere ancora oggi in
Bretagna per ritrovare,
arenate nelle sacche di
sabbia dovute alla
marea, vecchie barche
oramai in disuso.
Nessuno però si azzarda
a spostarle o portarle
via, ancora oggi queste
sono le barche che
traghettano i morti. E’
questa l’espressione
della comunicazione
locale con un aldilà mai
visto come luogo
tenebroso come
dimostrerebbero i
numerosi cimiteri mai
isolati dai luoghi
abitati. Del resto è già
dai tempi di Claudiano,
V secolo, che l’area
bretone era nota come il
luogo dei morti, era
qui, infatti, che si
identificava il luogo
ove Ulisse aveva
incontrato i morti e ove
“i contadini vedono
vagare le ombre pallide
dei morti”, una
affermazione che
ritroveremo in seguito
proprio legata al
territorio italiano. Ma
questo non basta, oramai
è ben dimostrato come
alcuni viaggi compiuti
da cavalieri delle saghe
bretoni, come Parsifal o
Lancillotto, in terre
desolate o verso
castelli misteriosi
altro non sono che
viaggi nel mondo dei
defunti come poi
testimonierebbero
toponimi come Limors o
il Schastel le mort. Lo
stesso Artù, in varie
raffigurazioni, altro
non sarebbe che il
traghettatore delle
processioni dei morti,
come nel mosaico
pavimentale di Otranto,
ove il sovrano è
raffigurato con uno
scettro in mano in
groppa ad un caprone,
seguito da una schiera
di uomini.
LA PROCESSIONE DEI
MORTI NELLA TRADIZIONE
ITALIANA
Anche il folklore
italico però, come si
potrebbe pensare, non è
estraneo al mondo dei
trapassati, come mi sono
occupato in un altro mio
lavoro proprio sul culto
dei morti. La tradizione
della Processione dei
defunti e la visione
degli stessi da parte
della gente contadina
non è però patrimonio
esclusivamente bretone,
anche se ancora oggi in
quelle terre tale
tradizione resiste
fortemente, ma in tutta
Europa sono fortemente
diffusi racconti
popolari di gente che
periodicamente assisteva
a tali apparizioni. In
realtà questo
“spettacolo” non era
riservato a tutti, ma
solo a persone dai
particolari poteri o
nati in ben precisi
giorni. Così, ad
esempio, in Friuli, il
Ginzburg parla dei
Beneandanti, uomini
dai particolari
“poteri”, nati con la
“camicia”, un parte
della placenta che,
proprio per questa loro
“stranezza” saranno poi
gli attori, in
particolari periodi
dell’anno, di una lotta
contro le forze maligne
per assicurare fertilità
ai campi. Sono loro che
possono aver rapporto
con i defunti dato che
“chi vede i morti, cioè
va con loro, è un
Benandante”. Moltissimi
poi sono i racconti
popolari di incredibili
incontri nelle campagne
con schiere di defunti.
Sempre in Friuli
interessante è
l’avventura capitata ad
un povero monaco nel
1091. Mentre questi
camminava lungo un
sentiero di campagna
viene attratto da strani
lamenti e così scorge
una processione tra la
quale riconosce alcuni
uomini suoi conoscenti
morti da poco tempo. Se
però potremmo pensare
che simili visioni sono
relegate ad un lontano
passato ecco presenti
numerose testimonianze
di donne lucane che
durante il secolo scorso
si imbatterono in quella
che è la “messa dei
morti”. Così lungo le
buie vie che conducono
le contadine del sud nei
campi da lavoro, capita
spesso di vedere una
chiesa aperta e
illuminata e all’interno
anime dannate che
allontanano subito le
viandante o le
comunicano un messaggio
per il mondo dei vivi.
“…una volta un
forese [abitante del
paese di Forenza, in
Lucania N.d.A] commise
con il suo padrone di
andar ad attingere acqua
ad una fontana lontano
dal paese…il forese si
mise in cammino ma
giunto nei pressi della
fontana di Tromacchio
vide quattro persone che
portavano a spalla una
bara…decise di andare
alla fontana di spando
ma anche qui il cammino
era sbarrato dai
quattro…allora gli venne
incontro un sacerdote
morto da qualche tempo
che lo prese per mano e
gli disse “queste
scommesse non le devi
fare”…”
La strana fila tanto
ricorda quelle
raffigurazioni
rinascimentali, chiamate
“Danze Macabre”, che
iniziano ad apparire
attorno al 1400,
interpretate
successivamente con il
motivo della morte
“livellatrice”.
Sicuramente queste
attingerebbero da ben
più antichi ricordi,
come testimonierebbe la
primitiva guida delle
fila. Sempre nella
regione lucana,
fortemente legata al
mondo contadino,
pullulano storie di
donne che, mentre
raccoglievano l’acqua,
nel riflesso del catino,
scorgevano strane
processioni tra le quali
individuavano alcuni
loro defunti, tradizione
presente anche nel Sud
Italia. Anche in questo
caso le “visioni” sono
accomunate da un
particolare: avvengono
solo in particolari
momenti della vita
dell’individuo o in
particolari periodi
dell’anno, spesso
coincidenti con
festività agrarie, come
ad esempio la Festa di
Onnissanti o la notte di
San Giovanni.
DOLCETTO O SCHERZETTO? I
PROLEGOMENI DEL CIBO DEL
MONDO CTONIO
Allo stesso modo si
innesta la tradizione
del cibo dei defunti,
trasformato poi nelle
leccornie e dolciumi per
i giovani bambini. Da
sempre l’uomo ha avuto
timore del ritorno del
defunto, l’untore che
può portare morte tra i
vivi. Secondo così il
principio della magia
simpatica, ponendo del
cibo nelle tombe si
sarebbe placata la fame
del trapassato
impedendogli così di
ritornare sul mondo
terreno. Che il cibo
reale fosse davvero
utilizzato nei sepolcri
è dimostrato da diversi
testi come il “De
Masticazione Mortuorum
in Tumulis” di Michel
Raufft o la “Dissertatio
Historico-Philosophica
de Masticatione Mortorum”
di Philip Rohr. Qui si
descriveva come il
morto, le cui scorte
alimentari erano
insufficienti, iniziava
a nutrirsi masticando il
sudario e le sue stesse
carni. Anche il
cannibalismo diventa un
modo per assicurare la
seconda morte al
defunto, infatti lo
stomaco diventa suo
definitivo sepolcro e
sarebbe da questa
interpretazione che
deriverebbero diverse
espressioni popolari
Italiane come “bere i
morti” o “mangiare i
morti” (E. De Martino,
1959) e l’usanza del
banchetto funebre. Ecco
così che nel giorno dei
morti, quasi
riproponendo il tema
della necrofagia, in
molti paesi della
Penisola vengono
preparati strani
dolcetti a forma di ossa
chiamati appunto “ossa
dei morti” (A. Romanazzi,
2003) che vengono poi
regalati ai fanciulli.
Cibo rituale sono le
fave e i ceci, da sempre
presenti nei convivi
funebri e nelle
“merende” che si
tenevano tra i parenti
del defunto
immediatamente dopo il
funerale. La motivazione
potrebbe essere che la
fava è stata da sempre
considerata come il
mezzo per comunicare con
l’Aldilà, esse erano
presenti nelle cerimonie
funebri nell’antico
Egitto ed in Grecia
mentre a Roma erano il
simbolo della
resurrezione dalla
morte. Cicerone ci
informa dell’uso
ateniese di spargere
granaglie sulle tombe, e
legumi cotti in enormi
pentole venivano offerti
ad Hermes Ctonio. Ancora
fino al secolo scorso in
vari paesi grandi
bigonci erano posti agli
angoli delle strade in
modo che le anime
vaganti, ma anche i
poveri, potessero
rifocillarsi. Il seme,
poi, nasconde anche
un’altra motivazione,
esso è alimento molto
gradito ai defunti
perché, secondo
l’immaginario popolare,
deriverebbe proprio da
quello stesso mondo
conio al quale il
trapassato
apparterrebbe. Non solo
però, il seme è simbolo
del continuo ciclo di
morte e rinascita, esso
infatti viene mietuto
proprio per poter
ricrescere e non
dobbiamo dimenticare che
etimologicamente la dea
Cerere sembrerebbe
provenire proprio da
“Madre del grano”
identificata spesso con
l’ultimo covone della
raccolta e destinato a
rituali di fertilità,
infatti era riservato
alle vacche gravide
proprio per assicurare
loro fertilità o alle
stesse donne che si
dovevano garantire un
parto felice. Il seme
diventa così anche
simbolo della rinascita,
una novella speranza per
il defunto, dunque. Non
dobbiamo poi
dimenticarci della
tradizione del melograno
come altro alimento
importante, esso è un
frutto di speranza,
ricco di semi e da
sempre albero di
fertilità. Così, ad
esempio, è sulla tomba
di Osiride che germoglia
un melograno dopo che
esso viene ricomposto da
Iside, o ancora
raffigurazioni del
frutto le troviamo sulle
pareti tombali di varie
tombe etrusche o romane.
Ecco così che le
numerose tradizioni
legate alle schiere dei
morti propongono una
nuova ed interessante
interpretazione delle
schiere di ragazzini,
mascherati da esseri
demoniaci o
semplicemente da strane
creature animalesche,
che girano per le città
al grido di “trick or
treak”. Guidati da un
mitico “traghettatore”,
conosciuto ad esempio
nel mondo celtico come "cenmad
y meirew", ma la cui
figura come abbiamo
visto non è estranea al
patrimonio folklorico
italiano, questi
bambini, vestiti a
maschera come i vetusti
sciamani altro non
sarebbero che i defunti
che tornano tra i vivi e
chiedendo loro in
offerta cibo rituale
destinato in cambio di
tranquillità: solo una
volta sazio il defunto
potrà ritrovare la pace
dell’aldilà. |