“La storia più bella,
e diremmo la più vera,
non è sempre quella
degli avvenimenti che si
sono realizzati, ma
l’altra, che sarebbe
potuta essere e non fu,
vissuta dagli uomini
nelle speranze e nei
sogni.” (T.
Santagiuliana)
Nulla esisteva della
vasta e regolare pianura
che, quasi a perdita
d’occhio, si distende ai
nostri giorni. Sparuti
insediamenti umani e
terreni rozzamente
coltivati spezzavano la
monotonia di una
campagna in gran parte
incolta e selvaggia,
mentre, nelle terre
poste più ad oriente, un
complesso universo di
acquitrini e paludi
caratterizzava
un paesaggio neppure
comparabile all’odierna
valle abduana, un “mare”1
nel quale trovava
rifugio un terribile e
potente sovrano, signore
indiscusso del suo regno
d’acqua e assoluto
dominatore di una terra
malsana e crudele…
Fino ai primordi
dell’età medievale, ed
in alcuni casi fino agli
albori del ‘9002,
un vasto ed intricato
sistema di paludi si
estendeva dalle terre
meridionali del
lodigiano fino al
cremasco e poi oltre,
giungendo a lambire le
prime propaggini del
territorio bergamasco3.
Al giorno d’oggi nulla
di palesemente visibile
sembra sussistere a
dimostrazione
dell’esistenza dello
scomparso lago Gerundo4,
ma, osservando con la
dovuta attenzione le
campagne a ridosso
dell’Adda, è ancora
possibile individuare le
tracce di quell’antico
fondale: Maleo e
Castiglione d’Adda, solo
per citare due esempi,
sorgono su un terreno
rialzato che denota
l’esistenza di un antico
bacino idrico, sponde
naturali degli estremi
confini sud-occidentali
dell’antico mare5.
Il lago Gerundo,
conosciuto anche con il
nome di Gerundio o
Girondo6,
è una costante in molte
delle leggende
lodigiane, una
importante pagina della
sua storia passata.
Carte notarili del tardo
Duecento accennano alla
sua esistenza7,
ma già nel 1110 il
monaco Sabbio vi fece
accenni nei suoi scritti8.
La generale profondità
di questo “mare”
raramente era maggiore
di pochi metri, ma,
seppur non direttamente
alimentato da fiumi,
poteva giovare delle
risorgive sotterranee e
delle periodiche
inondazioni dell’Adda,
del Serio e del Sillaro
per un costante apporto
idrico, espandendosi
conseguentemente in
larghezza9.
Al suo interno
esistevano diverse
isole, per lo più
appezzamenti di terreno
dalla forma allungata10,
ma, nel complesso, più
che di un vero e proprio
paesaggio lacustre, pur
esistendo zone pescose e
relativamente salubri,
il panorama generale era
quello di una vasta
palude, dove zone
acquitrinose e stagnanti
erano la norma più
che l’eccezione11.
Nonostante ciò, per
lunghi tratti il lago
era navigabile e
sopravvivono ancora oggi
in alcune località,
soprattutto del
cremonese, i resti delle
torri nelle quali erano
infissi i grossi anelli
di ferro utilizzati per
l’attracco delle barche12
. Agli albori del
secondo millennio il
lago cominciò
progressivamente a
ritirarsi. Il drenaggio
fu principalmente opera
dell'uomo: grandiosi
lavori di bonifica, già
in atto durante il
periodo dei regni
romano-barbaric, furono
intrapresi con relativa
sistematicità dai monaci
benedettini, dai
cluniacensi e dai
cistercensi, poi, in
tempi più recenti,
canali di scolo
costruiti dalle genti
lodigiane contribuirono
al prosciugamento quasi
totale del lago13.
Gli ultimi suoi resti,
sopravvissuti alle
continue bonifiche ed
ormai ridotti a poco più
che pozze d’acqua
stagnante, erano ancora
visibili all’inizio del
‘900, ma, già allo
scoppio della Grande
Guerra, il mare Gerundo
non era che un lontano
ricordo14.
Le cronache locali,
forse con eccessiva
enfasi, riportano che,
nel dicembre del 1299,
un’inondazione di vaste
proporzioni devastò gran
parte della pianura
lodigiana. Il Po, gonfio
d’acqua e al limite
dell’esondazione, impedì
ai propri affluenti di
defluire, creando una
sorta di tappo in
prossimità dei punti di
confluenza. Adda e
Serio, a loro volta
ricolmi d’acqua ben
oltre l’usuale portata
in seguito ad un periodo
di eccezionali piogge,
tracimarono in più
punti, allagando gran
parte della campagna
circostante. La quasi
totalità del lodigiano
orientale fu inondato,
molti paesi giacquero
sotto metri d’acqua e i
campi furono devastati
compromettendo i
raccolti della primavera
seguente, mentre solo
pochi lembi di terra
scamparono alla
devastazione. Lungo il
basso corso dell’Adda,
tra i paesi che si
affacciavano sul Gerundo,
la sola città di Lodi
riuscì a scampare
all’inondazione, seppure
solo in parte. Tuttavia,
a causa
dell’impossibilità di
reperire risorse per
soddisfare le più
impellenti necessità
alimentari dei
sopravvissuti e
mantenere un’accettabile
condizione igienica tra
le masse degli scampati
all’immane disastro,
come inevitabile
corollario, una violenta
epidemia si abbatté su
un territorio già
duramente provato15.
Questo cataclisma, come
il lago Gerundo stesso,
influirono molto sulla
fantasia popolare. Molte
sono le storie, in parte
vere in parte
leggendarie, che trovano
la propria ragion
d’essere in questo
periodo del passato
lodigiano. Un’era dove
non esistevano eroi,
dove la durezza del
vivere quotidiano,
unitamente alla presenza
di territorio ostile e
malsano, fiaccavano
l’animo degli uomini.
Un’era dove solo il
conforto della religione
poteva rappresentare il
punto di riferimento in
un mondo costellato da
sofferenze e ancestrali
paure…
Una secolare
tradizione, in realtà
non solo lodigiana,
narra che nei bassi e
melmosi fondali del
lago, una creatura
spaventosa abbia trovato
la propria dimora. Un
drago senza passato,
gigantesco e crudele,
flagello per tutti
coloro che popolavano le
rive del mare Gerundo,
maestoso ed imponente,
capace di ammorbare
l’aria con il suo alito
pestilenziale16.
Secondo un’apocrifa
leggenda, dagli abitanti
di Lodi, città che in
quei tempi remoti era
lambita dalle acque del
lago, un periodico
tributo di sangue era
dovuto al vecchio
Tarando17,
affinché non scatenasse
la sua collera contro
l’inerme popolazione18.
Ora che il lago Gerundo
è prosciugato da tempo,
nulla più esiste di quel
drago un tempo così
potente e la sua morte -
ammesso che di morte si
possa parlare - è
immersa nelle nebbie
della leggenda e del
folclore locale. Diverse
ipotesi si accavallano
per dare ragione della
scomparsa del leviatano
e, seppure nessuna di
queste possa essere
portatrice di una
inoppugnabile veridicità
storica, tutte, a loro
modo, sono serbano
alcuni scampoli di
verità19.
La più nota e diffusa
delle favole che ancora
si ricordano attribuisce
a San Cristoforo20
la paternità
dell’impresa che ha
portato a liberare il
lodigiano e le terre
vicine dal loro più
grande flagello e trova
la propria ragion
d’essere nella terribile
alluvione del 1299. La
leggenda è fumosa in più
punti, ma, con assoluta
certezza fa coincidere
il decisivo intervento
del santo con la
scomparsa del drago
Tarando, la cui carcassa
sarebbe stata poi
ritrovata quando le
acque iniziarono, agli
inizi di gennaio del
1300, lentamente a
ritirarsi21.
Un’altra leggenda
attribuisce al giovane
lodigiano Egimaldo
Cadamosto l’uccisione
del drago22,
mentre, prestando fede
ad una versione
ulteriore del racconto,
il mostro sarebbe stato
sconfitto da Uberto
Visconti, il capostipite
dell’omonima casata23,
presso Calvenzano24.
Un’altra variante
prettamente lodigiana
della vicenda sostiene
invece che sia stato
Bernardino Tolentino,
vescovo di Lodi al tempo
della nota alluvione, a
causare la morte del
mostro: dopo tre giorni
ininterrotti trascorsi
pregando Dio ed
invocando l’ausilio di
San Cristoforo, nel
corso della notte di San
Silvestro, le acque
iniziarono a ritirarsi,
regalando allo stremato
popolo lodigiano i resti
ormai senza vita del
drago. Come pegno per la
grazia ricevuta,
Bernardino fece poi
restaurare la chiesa
cittadina dedicata al
santo25.
Un’ultima leggenda, in
realtà piuttosto fine a
se stessa ed avara di
particolari, in termini
molto generici,
attribuisce a Federico
Barbarossa la paternità
dell’uccisione di
Tarando.
Quelle narrate, seppure
il sostrato storico sia
indubbio, sono solo
leggende popolari. E la
stessa esistenza di un
drago non riesce a
liberarsi dagli stretti
vincoli che lo legano al
regno della fantasia e
della superstizione.
Eppure, paradossalmente,
esistono prove concrete
che avvalorano ciò che,
razionalmente parlando,
sembrerebbe impossibile…
A Pizzighettone26,
nella sagrestia della
chiesa di San Bassiano,
è ancora conservata una
“costola
di drago”, un osso che
tradizionalmente si
ritiene appartenuto al
drago Tarando. Dalla
forma allungata e
vagamente rassomigliante
ad un femore umano dalle
abnormi dimensioni
stupisce soprattutto per
essere reperto
assolutamente fuori
luogo per le terre
abduane, una sorta di
enigma scientifico.
Grosse ossa appartenute
alla spaventosa
creatura, sono inoltre
conservate - prestando
fede alla credenza
popolare - ad Almenno
San Salvatore presso la
Chiesa di San Giorgio e
nel Santuario della
Natività della Beata
Vergine di Paladina.
Anche a Lodi si tramanda
fosse custodita presso
la Chiesa di San
Cristoforo una costola
del drago, andata poi
perduta nel Settecento27.
Generalmente questi
resti sono considerati
prove fossili di qualche
cetaceo, testimonianza
concreta di un mondo
antidiluviano scomparso
da millenni, ma non sono
pochi coloro che non
vogliono credere a
questa (troppo) facile
risoluzione del problema28.
Il fascino che sa
trasmettere un’era
lontana dove ancora
esisteva spazio per le
creature del mito non
può piegarsi alle leggi
della ragione e, anzi,
la ricerca di tutto ciò
che, insolito e anomalo,
possa mantenere viva e,
a suo modo, possibile
un’antica leggenda è
l’essenziale
combustibile che
alimenta e mantiene in
vita, ancora agli albori
del terzo millennio, la
favola di un terribile
drago, monarca assoluto
di un misterioso lago
scomparso da secoli.
NOTE
1:
Mare è qui da
intendersi, più che come
vasta distesa d’acqua,
nel senso etimologico
offerto dal termine
tardo latino “mara”,
ossia palude.
2:
Nel paese di Meleti,
ancora agli inizi del
‘900, esisteva un
piccolo lago.
Volgarmente noto come
“Lago di Meleti”, questo
piccolo specchio d’acqua
è prosciugato ormai da
tempo, ma
“tradizionalmente” è
ancora ricordato tra i
bassaioli come l’ultimo
lembo dell’ormai
scomparso lago Gerundo.
Il laghetto di Meleti
era anche conosciuto
come “Lago Boyton” o “Boytoniano”.
Tale denominazione
alquanto bizzarra era
motivata dal fatto che,
nel corso del 1876, lo
statunitense Paul Boyton
fece esperimenti in
quelle acque con
sommergibili da lui
progettati e
successivamente
utilizzati per
traversate oceaniche e
navigazioni lungo i
principali fiumi
europei. A titolo
d’esempio si veda Cairo
- Giarelli, Codogno e il
suo territorio nella
cronaca e nella storia,
Vol I, pag. 19, Codogno,
1898.
3:
Per maggiori
informazioni riguardo al
lago Gerundo, la sua
storia ed il suo
territorio, si
consiglia: Giovanni
Abati (a cura di), Le
terre del lago Gerundo,
Treviglio, 1996.
4:
L’etimologia del termine
Gerundo è generalmente
fatta risalire alla
volgarizzazione del
termine latino “glarea”,
ossia ghiaia. Per
ulteriori argomentazioni
in merito si veda
Giovanni Abati (a cura
di), Le terre…cit.
5:
Per quanto riguarda
Castiglione d’Adda,
l’altura sul quale sorge
il paese è chiaramente
visibile provenendo da
Crema e lo stesso dicasi
per Maleo, provenendo da
Pizzighettone. Più in
generale, anche se forse
non sempre con facilità,
è possibile rendersi di
come tutti i paesi più
orientali del lodigiano
siano posti in zone
rialzate di territorio,
un tempo costituenti la
riva occidentale del
lago Gerundo.
6:
Cfr. Gio$vanni Abati (a
cura di), Le terre…,
cit.
7:
Cairo - Giarelli,
Codogno e il suo
territorio…, Vol I, pag.
20, cit.
8:
Fulvio Rossetti, La
costola del drago, in La
Gazzetta della Martesana,
3 luglio 2004.
9:
Cfr. Giovanni Abati (a
cura di), Le terre…,
cit.
10:
L’isola più nota era
l’isola Fulcheria, sulla
quale sorse la città di
Crema.
11:
Cfr. Giovanni Abati (a
cura di), Le terre… cit.
12:
A Truccazzano, solo per
citare un esempio, sono
ancora visibili i resti
degli antichi attracchi,
precisamente nei resti
di un edificio noto come
“Torretone”.
13:
Cfr., ad esempio,
Giovanni Abati (a cura
di), Le terre…, cit. Si
veda anche Cairo -
Giarelli, Codogno e il
suo territorio…, Vol I,
pag. 20, cit.
14:
È bene precisare che ben
difficilmente,
nonostante la credenza
popolare sia di tutt’altro
avviso (si pensi a
quanto accennato
precedentemente in
merito al lago di
Meleti), piccoli laghi
originati dal Gerundo
sarebbero potuti
sopravvivere fino alla
fine del XX secolo,
soprattutto in
considerazione delle
diffuse e capillari
opere di bonifica
succedutesi nel corso
dei secoli.
15:
Cfr., tra gli altri,
Cairo - Giarelli,
Codogno e il suo
territorio…, Vol I, cit.;
L. Samarati, I Vescovi
di Lodi, Milano, 1956;
E. Lodi, Breve storia
delle cose memorabili di
Treviglio, Milano, 1647.
16:
“La leggenda popolare
immaginò sul finire del
XIII secolo il grande
drago Tarando disceso,
come il veltro dantesco,
non per l’onda del Po,
ma per quella dell’Adda
che lo immetteva nel
lago, dove stette
appestante coll’alito le
genti”. Cairo - Giarelli,
Codogno e il suo
territorio…, Vol I, pag.
21, cit.
17:
Il drago è noto anche
con il nome di
Tarantasio, Tarantascio,
Taranto o Tartàro.
Tarando, sebbene non se
ne conosca l’origine
etimologica (per alcuni
il nome avrebbe
attinenza con il termine
“tarantola”), è tuttavia
la denominazione, da un
punto di vista
quantitativo,
maggiormente utilizzata
nei racconti e nelle
leggende.
18:
Altri aneddoti ancora
raccontati in merito al
Gerundo ed il suo
mostro: nelle terre più
meridionali lambite dal
lago si racconta che ai
bambini non fosse
permesso giocare sulle
spiagge ed in prossimità
delle acque perché
Tarando li avrebbe
mangiati; a Crema si
racconta che nelle
giornate di tempesta il
drago riparasse
sull’isola Fulcheria
mietendo vittime per
saziare il suo appetito;
nei paesi
basso-lodigiani
appollaiati sulle alture
a ridosso dell’antico
fondale si narra che
Tarando, nelle giornate
di nebbia e nelle notti
senza luna,
terrorizzasse il riposo
dei neonati con versi
spaventosi.
19:
Le diverse versioni
della leggenda di
seguito riportate, sono
patrimonio in grande
misura orale. Non
esistono fonti
assolutamente certe o
documenti risolutivi,
sui quali basarsi per
affermare la maggiore
veridicità di una
narrazione piuttosto che
di un’altra. Inoltre,
gran parte delle fonti
sono spesso apocrifi e
costruzioni ad hoc,
fondate sulla parola e
la memoria locale,
quando non pura
invenzione.
20:
Nel medioevo il culto di
San Cristoforo era
largamente diffuso. In
quanto “Santo
ausiliatore” era
particolarmente invocato
in occasione di gravi
calamità naturali o per
richiedere la protezione
dalle disgrazie, tanto
che il suo patrocinio
era particolarmente
ricercato durante le
pestilenze. Il nome
Cristoforo, in greco,
significa “portatore di
Cristo”: la leggenda
parla di un uomo in riva
ad un grande corso
d’acqua della Licia che
aiutava
l’attraversamento dei
viandanti. Una notte gli
si presentò un fanciullo
per farsi portare al di
là del fiume. Reprobus
(questo il nome del
santo, in origine) anche
se forte e robusto si
piegò sotto il peso di
quell'esile creatura. Al
meravigliato
traghettatore il bambino
rivelò di essere il
Cristo, profetizzandogli
nel contempo il futuro
martirio.
21:
Cfr., a titolo
d’esempio, L. Samarati,
I Vescovi…, cit.
22:
Da non confondersi con
il più celebre Camillo
Cadamosto, nobile
lodigiano protagonista
di ben altra, e nota,
leggenda. La storia di
Egimaldo, ancora
raccontata nel
lodigiano, è spesso
confusa e varia molto a
seconda di chi sia a
narrare la sua caccia al
drago. Per alcuni
avrebbe tentato di
uccidere Tarando come
prova d’amore per
conquistare il cuore
della bella Sterlanda,
forse riuscendoci forse
desistendo di fronte a
un tale nemico e,
conseguentemente,
ricorrendo all’aiuto di
San Cristoforo per aver
ragione del mostro, per
altri sarebbe stato una
sorta di un nobile e
valoroso cavaliere,
versione lodigiana di
San Giorgio.
23:
Lo stemma visconteo
rappresenta un drago
serpentiforme (Tarando?)
con in bocca un
bambino.
24:
Cfr. M. Carminati, Il
circondario di Treviglio
e i suoi comuni,
Treviglio, 1892.
25:
Cfr. E. Lodi, Breve
storia delle…, cit.
26:
Il paese si trova ora,
per la maggior parte
della sua estensione,
lungo la sponda
orientale dell’Adda, ma,
prima della scomparsa
lago Gerundo era
località geograficamente
appartenente al Basso
Lodigiano.
27:
“Ancora attorno al
Mille, il suo scheletro
enorme era appeso sotto
la volta della chiesa di
San Cristoforo a Lodi, e
qualcuno di quelli che
ce ne hanno tramandato
la memoria , lo vide con
i suoi occhi”. T.
Santagiuliana, Geradadda,
Treviglio , 1973, in
Giovanni Abati (a cura
di), Le terre… pag. 17,
cit. “Le ossa del
drago”, come volgarmente
sono chiamate,
conservate ad Almenno,
Pizzighettone e Paladina
sono tutt’ora visibili,
collocate in luoghi
accessibili per il
pubblico.
28:
Esiste un’interessante
interpretazione volta a
dare ragione
dell’esistenza di un
antico drago nello
scomparso lago Gerundo.
Una tradizione ancora
viva testimonia che nel
medioevo alcuni
coccodrilli furono
importanti in territorio
padano e alcuni di
questi si adattarono poi
a vivere nel fiume
Serio. Probabilmente la
popolazione “vide” in
queste creature il
mitico drago Tarando.
Nella Parrocchiale di
Ponte Nossa, in
provincia di Bergamo, è
ancora custodito un
coccodrillo impagliato
“pescato” dal fiume nel
1594. Un’altra teoria
sostiene che il drago
del Gerundo non fosse
altro che una sorta di
allucinazione causata
dalla presenza di
storioni, pesci un di
grandi dimensioni e
dalla forma
serpentiforme. A tal
proposito cfr. Maurizio
Mosca, Mostri lacustri,
Milano, Mursia, 2002.
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