L’esplorazione
ha come meta l’alessandrino. Acqui Terme per la precisione.
Con me Marco Faion, conosciuto come Dakaron. Ha con sé una
macchina fotografica con flash. Magari riesce ad immortalare
qualcosa di strano nel corso della nostra visita. Vedremo.
Arriviamo ad Acqui Terme in tarda mattinata. In tempo per il
primo appuntamento della giornata. Con Lionello Archetti
Maestri, insigne storico. Nei giorni precedenti, in una
delle tante telefonate che hanno preceduto il viaggio, ci
aveva dato appuntamento al Bar Ligure, nel centralissimo
Corso Bagni. La biblioteca dove lavora è chiusa, essendo
sabato mattina. Peccato, avrebbe potuto farci vedere qualche
documento sul
Castello di Moncrescente
comunemente conosciuto in zona come
“La Tinazza”.
Archetti Maestri è un fiume di parole. Lo si starebbe ad
ascoltare per ore. Si vede che ha una grande cultura e
conosce tanto della storia e della microstoria di Acqui e
dintorni. Vicende storiche riferite in maniera dettagliata e
minuziosa nelle quali, lo ammetto, un po’ mi perdo. Però la
storia della Tinazza o, meglio, quel poco di storia che si
conosce, è intrigante. “Non ci sono documenti storici
relativi a chi l’ha fatta costruire, anche se sembra
assodata la sua funzione di costruzione di natura militare.
Dovrebbe essere stata eretta a cavallo tra il XIII ed il XIV
secolo, con mattoni quasi tutti in pietra. Si trova su una
collinetta che domina la zona dove l’Erro si unisce al
Bormida. Ha una posizione privilegiata, una sorta di
terrazza sulla pianura di Acqui. Molto probabilmente è un
edificio eretto con la funzione di controllo dei percorsi
medioevali legati al commercio. Ha la forma di un tino
rovesciato, decisamente inusuale. Il fatto che sia stata
costruita li’ e la quasi totale assenza di notizie storiche
certe ha alimentato voci e dicerie di ogni tipo, incluse
quelle legate alle pratiche di gruppi satanici. Accanto c’è
una piccola cascina che veniva usata come deposito per la
legna, oggi abbandonata”. Dati
ufficiali pochi quindi. E, comunque, preferisco al momento
non chiedere altro. Per non essere influenzato al momento
della visita. Si riparte. Direzione Tinazza. Ci orientiamo
tra le indicazioni avute da Flavio Ranisi che ci aveva
segnalato il posto e da Archetti Maestri oltre all’ausilio
del navigatore. Malgrado questo sbagliamo strada.
Percorriamo un tratto in salita costeggiato da villette. Ci
fermiamo a fianco a una di queste e chiediamo ad una
signora. No. La Tinazza, non è li’. La signora si sbraccia,
cerca di spiegarsi ma non riesce a dare le indicazioni
precise. Sicuramente è su un’altra collina. Infatti. La
vediamo. Sulla cima della collina di fronte. Arrivati sul
posto parcheggiamo. C’è un tratto da fare a piedi. Un
sentiero in salita. Ci incamminiamo. Alberi, prati incolti,
camomilla selvatica ed altri fiori. Poi eccola di fronte a
noi. Da vicino non si direbbe neanche un castello diroccato.
Sembra una strana costruzione antica, indefinita. C’è calma
nell’aria. Sentiamo gli uccelli cinguettare. C’è atmosfera
di pace. Entriamo all’interno della costruzione attraverso
un’ampia apertura. Dentro il terreno è ancora più incolto.
Sterpaglie, terriccio, vegetazione sparsa.
Si sente come un senso di ovattamento. A parte una mosca che
ronza intorno non sentiamo nulla. Il cinguettare sentito
fuori è scomparso. Eppure la costruzione è aperta e nulla
impedisce fisicamente il passaggio dei suoni. Esco di nuovo
fuori. Il cinguettio si sente. Rientro. Nulla. Strano.
L’interno della costruzione non c’è praticamente nulla. Non
c’è traccia di stanze o altro. Identifichiamo quella che
potrebbe essere una cisterna, ci chiniamo attraverso il
piccolo ingresso ed entriamo. Per terra sporco e ragnatele
ai muri. Dall’apertura in alto entra la luce esterna.
Usciamo dalla cisterna. Marco prosegue con le foto ed io mi
aggiro sempre dentro. Ancora il senso di ovattamento. Fuori
dalla Tinazza c’è un’altra costruzione. Molto più recente.
Deve essere la cascina di cui ci ha parlato Archetti
Maestri. Non si capisce se sia stata abitata ma è in
evidente stato di abbandono.
Ci avviciniamo, allontanando i rovi che ci ostacolano il
cammino. C’è un ingresso senza porta. Davanti a noi una
scala, a destra e a sinistra due ampie stanze. Sporco e
calcinacci ovunque, vicino alle scale una vecchia scarpa
bianca, da donna. Marco mi rassicura. Non ci sono segni di
messe nere. Solo dei nomi e delle date. Sicuramente i
ricordi di ragazzini che per fare i coraggiosi con gli amici
si sono avventurati fin li’. Magari nottetempo.
Contrariamente al senso di pace che proviamo fuori, li’
abbiamo una sensazione di disagio, di fastidio. Mi incammino
per la rampa di scale. Vorrei vedere anche il primo piano ma
desisto. La seconda parte della rampa è piena di detriti.
Sarebbe facile scivolare. E poi il pavimento del piano di
sopra non sembra molto saldo. Può bastare. Usciamo. Proviamo
ad andare ancora oltre, superando un gruppo di cespugli. C’è
uno strano rumore. Un animale. Forse un cinghiale. Ci
avevano detto che ce ne sono. Meglio non rischiare. Facciamo
marcia indietro e ripercorriamo il sentiero da cui siamo
venuti lasciandoci alle spalle la Tinazza e la sua atmosfera
incantata. Giorni dopo sono al telefono con Flavio. Mi
informa che in passato al piano di sopra
della cascina si erano svolti riti satanici. Da questo forse
la nostra sensazione di negatività. “Ma lei gli uccelli
vicino alla Tinazza li ha visti?” Mi chiede quando gli
riferisco della stranezza sui suoni che scomparivano
all’interno della costruzione. Accidenti, no non li ho
visti, ma ci sono, ribatto. “Ma se non li ha visti come può
essere totalmente sicuro che c’erano?” mi risponde senza
scomporsi. Touché. C’era un’atmosfera magica li attorno. Ma
no, figuriamoci. Solo sensazioni, sia chiaro. Eppure, se
vogliamo, il dubbio può anche sorgere.
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Sulla collina prospiciente Melazzo, al di là del torrente
Erro, si scorgono isolati i resti del castello di Moncrescente,
conosciuto localmente come la “Tinazza” per via della sua forma che
ricorda quella di un tino rovesciato. L’edificio principale, databile
alla prima metà del XIV secolo, presenta una pianta ottagonale, con
quattro torri angolari, secondo una tipologia non consueta nel
Monferrato. La fortificazione fu costruita per scopi esclusivamente
militari e non abitativi, anche se non è possibile stabilire chi furono
i committenti, e conserva alcuni elementi connessi alla difesa tra cui
la porta di accesso, che doveva essere dotata di saracinesca e ponte
levatoio, oggi scomparsi, e varie feritoie disposte lungo tutto il
perimetro che consentivano la difesa per mezzo di armi da tiro (archi e
balestre). L‘interno era costituito prevalentemente da strutture lignee
che non si sono conservate. Una particolarità è rappresentata
dall’elevato numero di latrine (se ne contano ben cinque!), piccoli
ambienti dotati di un sedile forato che scaricava direttamente
all’esterno delle mura. All’interno del recinto principale si individua
la base di una torre a pianta quadrata che risale a un’epoca anteriore (XII
- XIII secolo), unica testimonianza di un precedente complesso
fortificato, che comprendeva strutture in terra e legno, di cui non
rimangono tracce visibili. Il castello perse presto le sue funzioni
militari risultando già in disuso alla metà del Cinquecento: questa
circostanza ha fatto sì che l’edificio non subisse modifiche di rilievo,
conservando cos’ì le sue caratteristiche originali. |