«Da
ogni lato dei fabbricati e a livello del terreno erboso si allargava
lentamente una bruma grigiastra, una spuma alta mezzo metro. Onde
simili, ribollenti, si stavano espandendo anche dalla base di
ciascuna delle lingue di fuoco, finché coprirono interamente i tetti
delle costruzioni, iniziando a scendere lungo le pareti».
La vacanza in Alta Engadina di una giovane coppia – la romena Diana
e il marito Giorgio, giornalista del Corriere della Sera – viene
turbata dalla loro scoperta sul Bernina del cadavere di un uomo, un
ebreo di nome Saul Veil, cui la donna sottrae ciò che sembra una
comune scheda telefonica... È solo l’inizio de La polvere eterna, un
romanzo in cui avventura, fantapolitica, esoterismo, spy story, si
combinano in una miscela affascinante e chiaroscurale, composta da
fulminei colpi di scena e da sorprendenti stratificazioni narrative
all’interno delle quali si collocano ambienti tentacolari e si
muovono personaggi sfuggenti.
L'AUTORE
Il milanese Giovanni Nebuloni da sempre opera nel campo della
pubblicistica e dell’editoria. Con
La polvere eterna
ha deciso di entrarvi da autore.
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«Fa’ presto,
corri!».
L’urlo aveva rotto il silenzio e l’eco si perdeva oltre
l’aliante che planava sulle cime del Bernina. L’uomo lo scorse
prima di volgere lo sguardo alla moglie.
Correre? La pendenza del sentiero impervio era almeno del
quindici per cento e dopo un’ora di marcia non aveva la forza e
la voglia di correre. Contro il pendio che si curvava dapprima
ampio e maestoso e che all’improvviso si ergeva in verticale e
come schiacciato sotto il pizzo, la piccola figura di Diana era
sola e immobile. Non era da lei gridare al lupo senza motivo, ma
che rischi potevano esserci a non più di tre chilometri dal
rifugio?
Diana chiuse gli occhi. Le mancava l’aria e cercò di respirare
profondamente, ricordando di avere un grembo liscio e armonioso,
perfetto se non fosse stato una porta sul vuoto. Non avevano
ancora un figlio e non erano sterili, non avevano difetti.
Tuttavia qualcosa non funzionava. Non era ancora incinta e
desiderava avere un bimbo come il pane e l’aria. Ecco che
arrivava, l’aria, pungente e morbida. Si era levato un vento
secco che portava un odore acido e di miele, zuppa, ciorbă
andata a male.
«Cefas!».
Il “suo nome” la fece trasalire. Vide che il marito era a
qualche metro da lei e che ansimava. Non conosceva le ragioni
che impedivano la venuta di una nuova vita e cos’era l’odore che
svaniva, ovviamente in “Cefas” però si riconosceva. Era l’ultimo
soprannome che le aveva affibbiato e derivava dall’intercalare
nella lingua natale, quando diceva “Cè fas fa”, che, scritto “Ce
faci fă”, significava “come stai”.
Come stava l’uomo nel crepaccio?
«Guarda». Giorgio le si accostò e le strinse un poco un braccio.
Nella fenditura della montagna, sulla neve e tra le rocce
marroni e grigie, c’era il corpo di un uomo con la schiena verso
il cielo. «Non si vede sangue».
«Ce n’è sicuramente in quantità» disse Giorgio. «La roccia di
mezzo metro su cui è finito gli ha squarciato il torace. La
punta del cuneo l’ha passato da parte a parte e gli è uscita
dalla schiena, sollevando la giacca per qualche centimetro. Ecco
perché non si vede».
«Avrà sofferto molto?».
«È morto all’istante. O meglio, immediatamente dopo l’impatto
con la roccia appuntita perché è caduto da lassù». Giorgio
indicò uno sperone di granito cinque metri sopra loro e venti
sopra il cadavere. «Doveva essere ancora vivo quando ha
picchiato su quel masso sporgente. Vedi la neve spazzata in quel
punto? Quindi è precipitato sulla roccia».
«Non è uno dei modi migliori per andarsene».
«Dobbiamo chiamare il soccorso alpino, o la polizia».
«Stai pensando a un omicidio?».
«Perché?».
«Tu conosci gli omicidi meglio di me» considerò Diana. «Potresti
anzi prendere appunti o dettare un articolo».
«Non voglio rubare il mestiere a nessuno e questo non può
interessare il giornale. Inoltre, mi occupo di vicende milanesi
o provinciali, cronaca spicciola e propriamente non omicidi,
anche se strada facendo non ho potuto evitarne».
«Vado a vedere» informò Diana, liberandosi della mano del
marito, che esclamò: «Fermati!». Ma Diana non l’udì neppure.
Scivolò rapidamente nel crepaccio scosceso e, a un metro dal
cadavere, protendendosi e piegandosi con la testa, senza
avanzare oltre con i piedi, osservò che la bandiera al vento era
sostenuta soltanto dall’ariete di pietra che come una trivella
gli aveva scavato il tronco, dracula goloso, succhiandogli la
vita. Quello che era stato un uomo era piegato ad arco su se
stesso e sembrava ondeggiare, gli arti penzoloni. Aveva la barba
ed era bianca come i capelli. Sulla bocca c’era un dito di
schiuma gialla e rossa e sulla fronte una tumefazione bluastra.
Una grossa goccia di sangue scuro e denso stava per cadere dal
naso adunco e largo alla base. Le orecchie erano molto
allungate. Gli occhi erano sbarrati ed era come se le iridi
fossero scomparse: erano completamente bianchi. Sulla terra,
sulle rocce, anche su un ciuffo d’erba secca, c’era un mare di
sangue fresco. Senza volgersi, continuando a guardare, fece un
passo indietro. Sentendo che il marito le era giunto accanto:
«Cos’è quella cosa rotonda?» domandò.
«Una kippot». Sul terreno, a un metro dalla testa del cadavere.
«Il copricapo che usano gli ebrei, con significato religioso. Ha
decorazioni sul perimetro,
blu al centro e lavorata
in oro, forse oro vero. Non toccarla. Non toccare niente». |